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Daniele Capezzone: Milano sotto assedio, troppi delinquenti liberi e una valanga di profughi paralizzano la Polizia

Daniele Capezzone
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«La recidiva, Capezzone, la recidiva...». Esco dalla Questura di Milano dopo una lunga mattinata che mi accingo a raccontare ai lettori, e non riesco a togliermi dalla mente le parole- fin troppo chiare e autoesplicative - del questore Giuseppe Petronzi. Sintetizzo: nell’ultimo anno, la sola Polizia, tra Milano e provincia, ha messo a segno 4.600 arresti (con 16.700 denunce), una media di 13 arresti al giorno.

Sono numeri impressionanti, che parlerebbero di un’azione repressiva massiccia, estesa, capillare. E però il Questore non nasconde una profonda e motivatissima preoccupazione per l’alto tasso di recidiva, cioè di persone arrestate più volte per il medesimo reato, in moltissimi casi commesso di nuovo a distanza di pochi giorni dal crimine precedente. O ancora, di persone denunciate a piede libero ma poi arrestate per aver a stretto giro di posta commesso reati perfino più gravi.

Qui non serve che il Questore aggiunga altro. La risposta la sapete già, anzi la sappiamo tutti: il problema sta in norme a volte non sufficientemente severe, e spesso in un’azione giudiziaria che tende alla scarcerazione facile, rimettendo in circolazione delinquenti seriali. Aggiunge conclusivamente il Questore: «Lei comprende che la questione della recidiva incide sulla sostanza dei fatti, non solo sulla loro percezione».

DENTRO E FUORI
Sono parole equilibrate, ma giustamente gravi e pesanti, che smontano in un colpo solo tante narrazioni buoniste e la logica della sottovalutazione perenne, mentre il cittadino comune - mi ripete il Questore - oggi è preoccupato per gli scippi, per una catenina strappata, per cose che, una volta subìte, non si scordano più. Uscito da Via Fatebenefratelli, corro a rileggere la relazione pronunciata pochi mesi fa dal Questore, e vi trovo un esempio eloquente e un’altra statistica impressionante.

L’esempio è quello di un cittadino straniero, fermato ad aprile a Milano per violenza sessuale ai danni di una ragazza molto giovane. Scrive Petronzi: lo straniero «era già stato condannato ed aveva scontato la pena in carcere per rapina ed un’altra violenza. Dopo la scarcerazione, era stato nuovamente arrestato per resistenza nel luglio dell’anno scorso e rilasciato a novembre». Aggiungo io: cos’altro serve per capire? Ricordatevelo ogni volta che sentirete protestare - da sinistra - contro la presunta “deriva securitaria” del governo o contro il recente giro di vite sui centri di permanenza. L’alternativa è lasciare in strada soggetti simili, con le relative conseguenze: basta saperlo. E qui si arriva alla statistica. Scrive il Questore: «Una riflessione serena e di carattere sociologico andrebbe fatta a proposito del 73% del totale degli arrestati per rapine commesse sulla pubblica via rappresentato da stranieri. Per i furti con destrezza, la percentuale arriva al 95%». Chiaro, no?

Tre rapine su quattro in strada sono effettuate da stranieri, a cui vanno aggiunti novantacinque furti con destrezza su cento. È esattamente ciò che allarma chi passa in una stazione, chi torna a casa la sera, chi fa un tratto di strada al buio. O vogliamo continuare a parlare di “percezione”? È con questo senso di inquietudine che ricostruisco le due ore prima del colloquio finale con il Questore, trascorse in Via Montebello 26 presso l’ufficio immigrazione.

Fuori, c’è una coda interminabile di persone, gestite da pazientissimi agenti (che in questo caso non indossano nemmeno la divisa: per non dare un senso di eccessiva tensione, mi si spiega). Dentro, c’è un numero impressionante di stranieri, spesso con i loro bimbi, tutti già incanalati in attesa del rispettivo sportello (ce ne sono circa 17 attivi nella grande stanza che li accoglie). Cerchiamo di capire di chi (e di che cosa) si tratti, perché avremo a che fare con storie e percorsi diversissimi.

Un primo binario è quello dei cittadini stranieri regolari che arrivano in Questura su appuntamento per ricevere o per prorogare il loro permesso di soggiorno. È ovviamente la situazione più semplice e lineare. Se sei entrato regolarmente in Italia, puoi farti fissare attraverso il canale delle Poste (portale online o ufficio postale) un appuntamento qui in Questura: in genere trascorrono da uno a quattro mesi. Stessa cosa per il rinnovo del permesso, se lo straniero ne sia già in possesso. E analogo binario vale anche per chi voglia chiedere e ottenere un ricongiungimento familiare.
È questa la parte tutto sommato più facile e distesa.

Poi si arriva a un binario assai più critico, quello che invece riguarda gli irregolari che meccanicamente - per prima cosa, una volta messo piede in Italia, fanno domanda di asilo. Gli agenti mi confermano i dati che ben conosciamo: su 100 persone che fanno domanda, alla fine solo 10 o 12 avranno i requisiti per essere considerati rifugiati. Gli altri sono chiaramente migranti economici, e sanno di esserlo: e però presentano comunque la domanda per la ragione che vedremo tra poco, e cioè perché - per questa via otterranno quasi due anni di permanenza indisturbata in Italia. Ma procediamo con ordine e esaminiamo tutta la casistica. Poniamo che ci sia stato uno sbarco e che l’immigrato non si sia reso irreperibile. Scatta la ripartizione territoriale e, come media, circa il 10-12% degli sbarcati finisce in Lombardia, regione che dunque paga un prezzo altissimo. Arrivano in pullman e sono i centri di accoglienza a facilitare la fissazione di un appuntamento in Questura. L’ufficio di Via Montebello gestisce 10-15 casi al giorno di questo tipo.

IL TRUCCO
Ma poi c’è la situazione ancora peggiore, quella di chi sia arrivato in Italia via terra o si sia reso irreperibile, o anche di chi sia sul nostro territorio da anni (e magari sia divenuto nel tempo irregolare). Fino all’aprile scorso, questi soggetti dovevano recarsi a Niguarda, in via Cagni, presso una struttura che era letteralmente presa d’assalto, e doveva gestire centinaia di casi al giorno. Inutile sottolinearlo: decine e decine di nazionalità, non pochi soggetti turbolenti, tensioni costanti, praticamente un inferno.

Allora da aprile si è scelto il male minore, e cioè un sistema di prenotazione attraverso nove associazioni (Croce Rossa, sindacati, Sant’Egidio, ecc). Gli irregolari prenotati attraverso questo canale, una volta arrivati presso l’ufficio della Polizia, vengono fotosegnalati e sono anche oggetto di un primo screening sanitario, anche per capire se siano ad esempio portatori di malattie contagiose. Inevitabile l’ausilio (in ogni lingua immaginabile) di interpreti e mediatori culturali: ma a gestire le operazioni sono appena tre agenti. Un massacro per loro, com’è facile immaginare. È in questo momento che l’irregolare manifesta la sua volontà di chiedere asilo compilando un modulo. L’operazione richiede dai 30 ai 60 minuti (se non ci sono complicazioni o tensioni particolari).

Dopo di che, non a Niguarda ma presso Via Montebello, questi soggetti saranno richiamati una seconda volta (in genere ci vogliono dagli 8 ai 20 giorni) per la formalizzazione ufficiale della domanda di asilo. Domanda che sarà inoltrata presso la Commissione territoriale competente (a Milano è in Via Melchiorre Gioia), che a sua volta si prende dai 6 ai 9 mesi di tempo per decidere.
A questo punto, delle due l’una: tra il 10 e il 12% dei richiedenti ottengono semaforo verde, come abbiamo già visto. Ma pure gli altri hanno ben poche chances di andarsene subito (di qui la sistematicità della presentazione della richiesta di asilo). Anche dopo il primo esito negativo, infatti, lo straniero fa sistematicamente ricorso in tribunale, e pure lungo tutta questa fase non può essere espulso. La decisione sul ricorso, in genere, richiede un anno di tempo.

Morale: anche chi non abbia alcun titolo e ne sia consapevole acquisisce, attraverso le maglie di questa procedura, un “bonus” complessivo di 18-21 mesi (anche per rendersi irreperibile, come le cronache ci insegnano). Nelle more, infatti, il soggetto usufruisce di un permesso di soggiorno di 6 mesi (rinnovabile), e lo stesso accade nel momento in cui presenta il ricorso per via giudiziaria dopo il primo diniego. Altro permesso di soggiorno, quindi: con relativa inespellibilità.

Cari lettori, non voglio immalinconirvi né esacerbarvi, ma a questo punto, ogni volta che vedete attraverso un tg un barcone arrivare a Lampedusa, potete immaginare da soli le scene successive del film, con questa spaventosa mole di lavoro a carico della polizia, e soprattutto con quei 18-21 mesi di margine conquistati anche da chi non abbia alcuno status di rifugiato. Sta qui il punto che gli estremisti dell’accoglienza non capiscono. O forse lo hanno capito fin troppo bene.

La quantità di lavoro a carico della Questura fa impressione. Solo a Milano, gli stranieri regolari residenti sono 510mila, il che determina una media di 180mila rinnovi annuali di permessi. A cui si aggiungono altre 17mila richieste annuali, nei termini descritti prima, da parte di irregolari o aspiranti rifugiati. Morale: se Brescia ha 196mila abitanti, l’ufficio della Questura di Via Montebello finisce per gestire 200mila pratiche l’anno di questo tipo. Scherzando ma non troppo, chi ha la responsabilità di questo settore mi dice di essere «il secondo sindaco lombardo» per numeri. E tutto avviene con il coinvolgimento di 190 persone, tra agenti e personale civile.

Sento già la voce dei lettori: e le espulsioni? Qui si arriva alle note dolentissime. Visito anche il relativo settore (trovate in queste pagine le foto dei letti e degli spazi dove sono trattenuti e sorvegliati coloro che, alla fine, dovranno lasciare l’Italia). E qui sono gli stessi agenti a raccontarmi con sconforto le tre opzioni. Nei casi migliori, quando è accertato che il soggetto non ha alcun titolo per restare in Italia, scatta il rimpatrio con volo charter. Altrimenti, è previsto il trattenimento presso i centri di permanenza. Solo il giorno precedente alla mia visita, Milano aveva organizzato spostamenti verso Potenza, Roma e Gorizia. Si badi bene: è richiesto l’impiego di due agenti per ogni straniero da spostare, quindi un impegno notevolissimo di uomini e mezzi. La terza opzione è la più imbarazzante: si verifica quando lo straniero riceve un mero “ordine di lasciare il territorio in 7 giorni”, cosa che, spesso tra le risate degli irregolari più scafati, non viene ovviamente mai eseguita. Sta di fatto che nel 2022 Milano ha realizzato appena 320 espulsioni. Cari lettori, sta qui il punto.

Finché i confini restano aperti, il sistema potrà solo produrre costi materiali ingentissimi, un aggravio di lavoro pazzesco per le forze dell’ordine (ammirevole la serietà, la compostezza, la pazienza di tutti gli operatori che ho incontrato), ma in ultima analisi un’invasione in piena regola. Anche perché le procedure di “exit” danno la sensazione di puntare a svuotare il mare con un cucchiaino. Procedendo a ritroso nel tempo, la mia mattinata è cominciata alle 8.45 in Via Cordusio 4, sede distaccata della Questura, dov’è stato allestito un ufficio per ottenere il passaporto nei casi di urgenza, quando cioè necessità di lavoro o di salute o familiari impongano al cittadino di procurarsi un passaporto valido in un tempo strettissimo (in questo caso, occorre presentarsi con il biglietto aereo e un minimo di pezza d’appoggio, ad esempio una lettera d’incarico del datore di lavoro, ecc).

Altrimenti, resta valido il canale ordinario degli appuntamenti di prenotazione online presso i commissariati di zona. La scorsa estate- mi raccontano cittadini e agenti- è stata un inferno. Tra luglio e agosto, dalle 7 di mattina in poi, valanghe di persone si accampavano lungo via Cordusio per attese inenarrabili. Ora la situazione è decisamente più tranquilla, ma resta comunque un carico di lavoro assai ingente per decine di agenti e anche un consumo di tempo non irrilevante per i cittadini. I quali - almeno - hanno però la piccola soddisfazione di poter andar via con il documento in mano, stampato e nuovo di zecca. Quest’estate, erano 250 al giorno quelli che uscivano con il documento. Ora la struttura ne stampa comunque tantissimi (tra ordinarietà e urgenza), ma in un clima meno arroventato, in tutti i sensi.

BUROCRAZIA PADRONA
E tuttavia, per i poliziotti che lavorano qui e sono sottratti al lavoro in strada, così come per i cittadini che pagano le tasse, le ragioni per incazzarsi - diciamolo chiaramente - ci sono tutte. Per quale ragione è così complicata l’attività di verifica che deve essere svolta interrogando le varie banche dati pubbliche (Procura, Tribunale, Agenzia delle Entrate, e anche un’altra Questura nel caso in cui il cittadino risieda in un diverso comune)? Perché le banche dati delle diverse amministrazioni dello Stato non si parlano tra loro, cioè non sono totalmente e automaticamente collegate, e occorre che la Questura che rilascerà il passaporto invii una richiesta mail (tramite pec) agli altri soggetti? Solita storia: lo Stato, attraverso le sue articolazioni, in teoria dispone già di tutte le informazioni necessarie, ma è complicato recuperarle e assemblarle.

Ripensando ai lunghi anni in cui abbiamo sentito parlare di transizione digitale e di mitici progetti di digitalizzazione della Pubblica Amministrazione, salgono alla bocca parole irriferibili. Resta anche da capire come mai la legge vigente (del 1967) imponga che sia solo il personale di polizia a dover gestire tutto l’iter del rilascio del passaporto. Il che è comprensibile per le verifiche più delicate: ma non si capisce perché la parte burocratica non possa essere svolta da un ente civile. Né (lo ripeto ancora) perché in un’era digitale si debbano tuttora vedere montagne di carte (quelle che troverete illustrate in una delle foto). Sappiate però che questa ingiusta odissea non riguarda solo noi cittadini. Sulla stessa barca ci sono pure gli agenti di polizia, gravati da una mole di lavoro pazzesca. E in qualche caso insensata.

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