Cerca
Cerca
+

Corrado Ocone: una Cina democratica è un'illusione liberale, dominare l'Occidente è l'obiettivo di Pechino

Corrado Ocone
  • a
  • a
  • a

È una strada molto stretta quella imboccata dagli Stati Uniti, e da una parte almeno dell’Occidente, nei confronti della Cina. Il senso è sempre lo stesso e gli incontri di Xi a San Francisco (con Biden prima e con i grandi imprenditori made in Usa poi) non hanno fatto che confermarlo: la Cina è un nostro avversario strategico, da cui ci dividono valori e ideali politici, ma anche un nostro importante partner commerciale. La domanda che però sarebbe opportuno porsi è fino a che punto ci si può spingere in avanti nel percorrere questa via che appare a molti la sola realisticamente praticabile. 

È possibile tener ferma fino in fondo la distinzione fra politica e affari, senza possibilità di commistione fra l’una e l’altra delle due sfere umane? Ed è soprattutto possibile far lo con la Cina, cioè con un Paese di antica civiltà che nutre una sorta di nazionalistica voglia di rivalsa nei confronti dell’Occidente? Uno Stato, fra l’altro, in cui il comunismo si è impiantato su un’antica concezione della vita improntata ai valori antidividualistici della “società organica”. Siamo sicuri che dall’intensificazione degli scambi commerciali a guadagnarne saremmo noi, o che comunque la partita si concluderà con un pareggio? Per molto tempo nelle nostre società ha prevalso una retorica fondata su quella che appare oggi una adesione acritica dei liberali all’ideologia del progresso. In sostanza, ci si è convinti che, per il solo fatto che due nazioni commercino, la pace fra loro è assicurata per sempre.

Questo motivo, che risale a Montesquieu, lo si trova anche in sinceri liberali come Bastiat o, nel secolo scorso, il nostro Einaudi. Ci si è anche convinti col tempo che dal commercio a beneficiarne non fosse solo la pace, ma anche la democrazia: un qualsiasi Stato di una civiltà diversa dalla nostra, entrando in contatto e conoscendo il nostro modello di vita e le nostre istituzioni, si sarebbe per forza di cose democratizzato. Questa idea sembrò essere confermata dalle vicende che portarono all’implosione del sistema sovietico a cavallo fra gli anni Ottanta e Novanta. In molti, dimenticando la straordinaria politica di deterrenza militare messa in campo dall’America di Ronald Reagan, dissero allora che la Russia era caduta a contatto con i supermercati occidentali, sempre pieni, piuttosto che dopo un conflitto armato, come di solito cadono gli imperi. Non c’è dubbio che questa ideologia del progresso riempì, sempre in quel periodo, le menti di una vasta parte delle élites occidentali. Tanto da far parlare qualche lettore frettoloso di Fukuyama di una avvenuta “fine della storia” attraverso la definitiva vittoria del nostro modello di “società aperta”. Fu su queste basi ideologiche che si avviò quel processo di “globalizzazione” e quell’apertura alla Cina che dovevano in breve tempo cambiare le coordinate geopolitiche e gli equilibri del mondo. L’idea che si fece avanti fu che, attraverso il mercato e la crescita economica, sarebbe nata anche in Cina una solida borghesia che avrebbe messo naturalmente in crisi il modello autoritario che vigeva in quel Paese. 

Dalla struttura alla sovrastruttura, cioè una sorta di determinismo di stampo marxiano, ma col segno capovolto. I fatti hanno dimostrato come si trattasse di una pia illusione e come anzi lo sbocco potesse essere, come effettivamente è stato, il consolidarsi in Cina di un sistema di capitalismo di Stato o della “sorveglianza” basato su un controllo ferreo del potere da parte di una piccola e disciplinata nomenklatura di partito. Un modello che, affondando le radici in un’idea di società risalente almeno a Confucio, usa il commercio e il soft power per dominare e imporsi al mondo. Al contrario di quella che è stata la nostra, la cinese non è una cultura sanamente “virile”. Essa, al contrario, preferisce conquistare i nemici attraverso la persuasione e quei rapporti che il “dolce commercio” naturalmente favorisce. 

Il «trionfo massimo» - scriveva Sun Tzu già nel V secolo avanti Cristo - è «vincere il nemico senza bisogno di combattere». Proprio perché punta alla conquista degli animi prima che dei corpi, il dominio cinese, se si realizzasse, sarebbe molto più profondo e pericoloso. Almeno per chi crede nell’individuo e teme la possibilità che l’uomo diventi un semplice ingranaggio di un sistema più vasto. Certe mode “cinesi”, come la deriva securitaria scattata in Occidente durante l’ultima epidemia, sono segnali che dovrebbero metterci in guardia.

Dai blog