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Processo Ruby, Maurizio Belpietro: ecco perché per fottere Silvio Berlusconi stanno fottendo tutti

Giulio Bucchi
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Si avvicina l'ora della sentenza nel processo d'appello a Silvio Berlusconi per il cosiddetto caso Ruby: il verdetto infatti è atteso per domani. Ma più si avvicina l'ora e con essa la possibilità di una conferma della condanna a sette anni di carcere, più si infittiscono i dubbi su una vicenda dai contorni incerti. Martedì è stata la volta degli avvocati difensori, i quali hanno smontato pezzo dopo pezzo l'impianto accusatorio della Procura, cominciando proprio dalla famosa telefonata. Come è noto, il processo che potrebbe mettere la parola fine alla carriera politica del Cavaliere, consegnandolo per i prossimi dieci anni agli arresti domiciliari, si basa tutto sulla chiamata alla Questura di Milano. L'allora presidente del Consiglio contattò un funzionario della polizia suggerendo cautela a proposito del fermo di Ruby. Berlusconi disse che la ragazza era nipote del rais egiziano Mubarak e invitò gli uomini in divisa ad affidare la giovane a Nicole Minetti, consigliere regionale del Pdl. Per la Procura la telefonata è la prova della concussione, per il Tribunale che lo ha condannato a sei anni (il settimo gli è stato appioppato per induzione alla prostituzione minorile) documenta la costrizione. Come si possa aver costretto un funzionario di polizia che nega di esserlo stato è un mistero. Tanto è vero che l'avvocato del Cavaliere, Franco Coppi, lo stesso che salvò Andreotti dalle condanne per mafia e omicidio, ha puntato il dito sulla macroscopica incongruenza. La costrizione non lascia scampo, con una minaccia mette una persona con le spalle al muro. Ma qui, da quanto risulta agli atti, non ci fu nessuna pressione, neanche velata, di trasferimento o altro. C'è solo la voce di un signore che all'epoca faceva il presidente del Consiglio. Basta questo per condannare una persona a sette anni? Perfino un giornale forcaiolo e anti-berlusconiano come Il Fatto Quotidiano comincia a chiederselo, sposando le tesi della difesa. Se avesse voluto - scrive il cronista di giudiziaria Marco Lillo - il funzionario della Questura avrebbe potuto tranquillamente sottrarsi alle pressioni, rispondendo a Berlusconi che la ragazza non risultava essere nipote di Mubarak. Ma il poliziotto non lo fece, non cercò di replicare alla cortese richiesta e dunque non ci fu reazione da parte di Berlusconi. Dove sta dunque la costrizione? Dov'è la coercizione a compiere qualcosa contrario ai doveri d'ufficio? Insomma, più si avvicina l'ora e più ci si rende conto che il regime giuridico emergenziale imposto in questi anni per fottere Berlusconi rischia di rovesciarsi a cascata sulle libertà personali nei prossimi anni. Le condanne del Cavaliere rischiano di fare giurisprudenza e dunque telefonare a qualcuno chiedendo qualcosa, anche se non c'è una minaccia implicita ma soltanto la richiesta, può costare sei anni e con le aggravanti arrivare fino a otto. Ma la chiamata in Questura non è il solo punto che fa sollevare il sopracciglio anche dei più determinati giustizialisti. Esiste la questione delle intercettazioni. Come è noto, dopo il fermo e la «liberazione» di Ruby, per mesi la Procura ha scavato attorno a Berlusconi e alla villa di Arcore, intercettando decine se non centinaia di persone. Ufficialmente l'indagine non era a carico del Cavaliere, che essendo un parlamentare (nonché premier) non poteva essere intercettato. La captazione dei discorsi era a carico di tutti quelli che gravitavano intorno a lui. Le utenze sotto controllo hanno avuto 1.732 contatti con quelle di Berlusconi e le utenze da cui sono stati estratti i tabulati di contatti con il Cavaliere ne hanno avuti addirittura 6.132. Berlusconi intercettato per caso? Ma come si fa a sostenerlo visto che le chiamate sono in gran parte di persone con lui o attorno a lui? Eppure la legge fissa dei paletti chiari. Una volta che sia evidente che si sta intercettando un parlamentare, l'ascolto dovrebbe essere interrotto e il giudice dovrebbe inoltrare richiesta di autorizzazione a intercettare direttamente alla Camera di appartenenza dell'onorevole. Perché non lo si è fatto? Possibile che gli intercettatori non se ne siano accorti? Va bene che c'è di mezzo Berlusconi, ma si può accettare un uso così massiccio delle intercettazioni a carico di persone che ruotano intorno al presidente del Consiglio senza chiedersi fino a che punto si può spingere l'invadenza delle procure nella privacy di un premier? E se, eliminato il Cavaliere, il problema si ripresentasse e orecchie indiscrete - anche se autorizzate - sentissero conversazioni riservate in cui gli argomenti del contendere sono affari di Stato? Insomma, più si avvicina l'ora e più ci si domanda: ma per far fuori il Cav a quanti spazi di democrazia abbiamo rinunciato? Per vincere la battaglia contro il Caimano non abbiamo ridotto a un tappetino la Costituzione, tanto che adesso la difesa delle prerogative del Senato contro la democrazia autoritaria di Renzi fa un po' ridere? di Maurizio Belpietro [email protected] @BelpietroTweet

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