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Renzi teme il complotto per silurarlo

Nicoletta Orlandi Posti
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«Faccio gli auguri al Corriere per la nuova grafica». Matteo Renzi, ieri a New York, seconda tappa del suo viaggio negli States, evita ogni commento. A Roma, però, l'argomento di ogni conversazione, nei Palazzi, è l'editoriale del quotidiano di via Solferino. Quella colonnina, firmata da Ferruccio De Bortoli, che attacca con una durezza inusitata il premier. «Devo essere sincero: Renzi non mi convince», comincia il direttore. Poi punta il dito contro la «debolezza delle idee» e «l'ego ipertrofico». Osserva che in Europa, «meno inclini di noi a scambiare la simpatia e parlantina per strumenti di governo, se ne sono già accorti». Dulcis in fundo, parla di «stantio odore di massoneria» a proposito del patto del Nazareno. Renzi preferisce parlare di quello che, in queste ore, gli sta più a cuore: la riforma del lavoro. Nel Pd «c'è una discussione» che «rispetto» e che «può aiutare a uscire su una posizione più forte». Ma «non è pensabile che ci sia un momento in cui uno si ferma e si tira indietro». Lunedì in direzione, «ci si ascolta, si decide e si va tutti insieme». Insomma, tira diritto, come sempre. Ma anche se non parla del Corriere, il messaggio è lo stesso. Non sarà un editoriale, né le resistenza di una parte del Pd, a fermarlo. Tanto più che ieri anche la Cgil ha fatto le prime aperture sul Jobs Act. Per il resto, coi suoi, ripete quello che va dicendo da mesi: «Me l'hanno giurata perché sto toccando interessi che finora nessuno aveva osato toccare. Ma non mi fermeranno». Il soggetto sono i poteri forti, i salotti buoni. Quell'elité che lo ha sempre mal sopportato e che lui ricambia, ignorando. Come si è visto in occasione del seminario Ambrosetti. Ma se fin qui l'enorme consenso popolare di cui Renzi gode aveva fatto da argine, da qualche tempo è come se quella sponda si fosse rotta. Gli indizi sono tanti. L'atteggiamento di Confindustria, certe prese di posizione di Diego Della Valle (che peraltro è nella proprietà del Corriere della Sera) , la linea del Sole24Ore, via via sempre più critica nei confronti del governo. Un deputato molto vicino a Renzi la vede così: «Matteo è uno che non risponde al telefono, che non si lascia condizionare. Uno che non puoi manovrare perché se ne frega. E questo fa imbufalire...». Ma qual è l'obiettivo delle elité? «Sperano nel fallimento di Matteo per portare dare vita a un governo tecnico, un governo della Troika», si dice tra i fedelissimi del premier. Il nome per guidarlo ci sarebbe già: Ignazio Visco, presidente della Banca d'Italia. Si cita un'intervista, fatta da Visco alcuni giorni fa, in cui dipingeva lo stato del Paese a tinte a dir poco fosche. Insomma, un indizio non è una prova. Ma se cominciano a diventare tanti, qualcosa dicono. La durezza del commento di De Bortoli, si dice tra i renziani, si spiega con il tramonto di quell'operazione: «Dopo la presa di posizione di Napolitano, si è capito che non c'è aria di governo tecnico. Qualunque cosa accada, Napolitano coprirà Matteo». E c'è anche un'altra ragione che rovinerebbe il buon esito dell'operazione sognata dalle elité: «Matteo non è solo il presidente del Consiglio, è anche il segretario del Pd. Quindi, se anche il suo governo dovesse cadere, non darà mai il via libera a un governo tecnico». Per quanto ieri, nella minoranza Pd, c'era chi sosteneva che «questo Parlamento voterebbe non uno, ma sette governi tecnici pur di arrivare al 2018». E i prossimi mesi, avvertono, non saranno semplici. Né ci si può cullare sui sondaggi. «Sia Monti, sia Letta», rifletteva un deputato della minoranza, «avevano sondaggi che li davano alle stesse percentuali che ora ha Renzi. Poi, nel giro di qualche settimana, sono crollati». Gli avversari interni del premier guardano alla legge di stabilità. Potrebbe segnare, dicono, «l'inizio di una nuova fase». Lì si vedrà se questo governo regge o no. «La parabola calante di Letta», ricordava ieri un bersaniano, «cominciò proprio con la legge di stabilità». C'è poi chi avanza un'altra spiegazione: che dietro l'attacco del Corriere ci sia la mano di Giovanni Bazoli, che è nella proprietà del quotidiano di via Solferino ed è molto amico di Romano Prodi. L'ex premier, infatti, avrebbe capito di non avere chance per il Quirinale, visto che il prossimo presidente della Repubblica sarà frutto di un accordo tra Renzi e Berlusconi. Vero o no, il premier non è intimorito. «Se il mio governo cade, si va diritti al voto», dice. E con il Consultellum, chiosano i suoi. Cioè con un sistema che non ha la protezione delle liste bloccate. De Bortoli, intanto, risponde alle congetture sul suo editoriale così: «Agitare i poteri forti è senza consistenza», lo si fa «quando la politica è debole». di Elisa Calessi

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