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IL BILANCIO DI LETTAPiù tasse e più spese

Enrico Letta visto da Benny

Alla fiducia, Enrico ha detto di aver tagliato balzelli e sprechi. I tecnici di Camera e Senato lo smentiscono: ecco tutte le cifre che inchiodano il premier

Andrea Tempestini
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Dal giorno in cui è diventato presidente del Consiglio Enrico Letta ha varato un pacchetto di decreti (non tutti sono ancora legge dello Stato) che hanno aumentato la spesa pubblica da qui al 2016 di 6,8 miliardi di euro. Gli stessi decreti hanno tagliato voci di spesa pubblica per 5,2 miliardi di euro. Il risultato netto - che non considera la spesa per interessi - è una macchina dello Stato che grazie a questo governo non solo non ha ridotto il suo perimetro, ma costerà più di prima agli italiani per  1,5 miliardi di euro. Sul fronte fiscale invece Letta ha tagliato tasse lorde per 6,7 miliardi di euro nel periodo 2013-2016, in gran parte grazie all'abrogazione della prima rata dell'Imu e al pacchetto di incentivi fiscali per le ristrutturazioni casa, mobili compresi. Ma nello stesso periodo ha stabilito nuove tasse e imposte per 7,4 miliardi di euro. Il risultato netto dunque è quello di un aumento netto della pressione fiscale di 754,7 milioni di euro. Cifre in contrasto Si tratta di cifre assai diverse da quelle per cui si è vantato in Parlamento il premier in occasione del discorso sulla fiducia bis che ha appena incassato il suo esecutivo. Alle Camere Letta ha sostenuto di avere abbassato la pressione fiscale in questi mesi per più di 3 miliardi di euro e di avere tagliato spese nette per 1,7 miliardi di euro. I servizi bilancio di Camera e Senato che hanno vagliato attentamente i contenuti di 11 decreti legge del governo e gli emendamenti che al momento sono stati approvati durante i passaggi parlamentari, forniscono ben altre cifre di dettaglio. Per raggiungere i risultati netti pronunciati da Letta il governo avrebbe dovuto congelare l'aumento di un punto dell'aliquota ordinaria Iva che è scattata invece il primo ottobre (1 miliardo) e conteggiare già quello che al momento è solo una promessa: l'abrogazione integrale anche della seconda rata Imu (2,4 miliardi di euro). Se avesse varato entrambe queste misure (e non è avvenuto) coprendole esclusivamente con tagli alla spesa pubblica, allora il risultato finale dell'operazione sarebbe assai vicino a quello di cui si è vantato Letta. Ma al momento mancano ancora per fare tornare i conti quei 3,4 miliardi di tagli promessi alle tasse coperti con 3,4 miliardi di tagli alla spesa pubblica. Solo tre decreti legge fin qui sono riusciti ad abbassare le tasse senza trucchi: quello che ha rinviato a luglio la prima volta l'aumento dell'Iva (sconto fiscale netto di 1 miliardo e 82 milioni di euro), quello sulle prestazioni energetiche dell'edilizia (sconto netto di 337 milioni di euro) e quello del fare (sconto di 154 milioni di euro). Cinque decreti Letta hanno lasciato invariata la pressione fiscale, e tre decreti l'hanno invece aumentata sensibilmente. Più di tutti il decreto legge scuola e istruzione che copre le notevoli maggiori spese pubbliche tutte con tasse: accisa su alcolici e birre (aumentano di 628,4 milioni di euro) e imposte di registro, ipotecaria e catastale (+ 504 milioni di euro, mangiandosi così una bella fetta dello sconto fiscale Imu). Ma a sorpresa sono finiti con l'aumentare le tasse anche i due decreti che più di ogni altro avrebbero dovuto allentare la pressione fiscale: quello sulla sospensione della prima rata Imu (tasse aumentata di 259,1 milioni di euro), e  quello sulla abrogazione della prima rata (tasse invece aumentate di 952,6 milioni di euro).  Naturalmente il trucco sul taglio delle tasse che invece le fa aumentare, sta tutto nelle coperture. Per racimolare i soldi che servivano all'Imu Letta ha pescato ad ampie mani sul fronte delle entrate: 950 milioni di euro di Iva in più (in realtà un giro di cassa con le imprese pagate dalla Pa), un condono tributario da 600 milioni di euro per i big del gioco legale e soprattutto un taglio alle detrazioni in vigore sulle assicurazioni vita per 1,6 miliardi di euro complessivi (che sono ad ogni effetto nuove tasse da pagare). Il caso Imu è la vera incognita di questa partita fiscale. Nella tabella abbiamo inserito i 2,6 miliardi di euro della prima rata abrogata fra le tasse abbassate, anche se contabilmente non è così per il bilancio dello Stato. L'Imu si doveva pagare ai comuni, e quindi sono loro ad avere abbassato le tasse, sia pure involontariamente. Lo Stato ha stabilito solo di coprire con trasferimenti il buco che nasceva nelle casse dei comuni: formalmente quindi quei 2,6 miliardi sono una maggiore spesa nel bilancio statale, non una riduzione di entrata. Ma nel trucco Imu c'è altro, che è in grado di fare incrementare quel conto della pressione fiscale nei confronti dei cittadini sia nel 2013 che negli anni successivi. Grazie a una legge dello Stato a dicembre infatti si pagherà la Tares, che incasseranno i comuni, e quindi non entra nel bilancio dello Stato (ma esce lo stesso dalle tasche dei cittadini che pagheranno più della precedente tassa dei rifiuti). Da gennaio  - sempre per legge dello Stato varata pure dal governo Letta - dalle tasche dei cittadini uscirà la service tax, che assorbirà in un solo colpo sia la Tares che l'Imu sulla prima casa (che quindi si tornerà a pagare semplicemente cambiando il nome della tassa). Inversione di rotta Sul fronte della spesa, altro che spending review! Il governo in questi cinque mesi ha gonfiato la spesa pubblica invertendo una rotta virtuosa che era stata seguita dal governo di Silvio Berlusconi nei suoi ultimi mesi di vita e successivamente dal governo di Mario Monti. Nelle relazioni tecniche dei decreti legge Letta non è mai citata nemmeno per sbaglio la spesa per interessi, quindi tutto è avvenuto senza considerare spread virtuale (quello giornaliero) o spread reale (quello fissato dai tassi delle aste dei titoli pubblici). La spesa pubblica gonfiata viene tutta dalle scelte dell'esecutivo, che in alcuni casi se ne è addirittura vantato. Ai tagli lineari Letta ha sostituito gli aumenti lineari ai capitoli di bilancio dei ministeri, senza fare differenza alcuna fra vizio e virtù dei beneficiari. Questo è accaduto in maniera sensibile sia nel decreto scuola (maggiori spese per 1,2 miliardi di euro) che in quello soprannominato “valore cultura” (maggiori spese per 164 milioni di euro). di Franco Bechis

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