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Luigi Di Maio, il suo piano: prenota due poltrone per arrivare a Palazzo Chigi

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Andrea Tempestini
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La vittoria snebbia i pensieri, rende le urne e le grisaglie meno patibolari. Figuriamoci, se ti spinge a Palazzo Chigi. Gigino Di Maio nel commentare il suo 32% di preferenze (e il successo dei 228 deputati e 113 senatori, una fiumana secondo le proiezioni) spunta allegramente dalla gabbia dei bodyguard che lo protegge da fotografi e militanti. Dice: «Sono fiducioso che il presidente della Repubblica Mattarella saprà guidare questo momento con autorevolezza e responsabilità. Daremo un governo al Paese». Cioè: occhio ragazzi, il candidato naturale premier sono io. Anche se, più o meno, è la stessa dichiarazione d'intenti che fa Matteo Salvini. Di Maio, dal quartiere generale pariolino dei 5 Stelle snocciola dati a nastro: intere regioni «dove ci ha votato il 50% dei cittadini. Aree in cui abbiamo raggiunto il 75% del consenso. Primi in Liguria e in Emilia Romagna, primi in Piemonte e nel Lazio (solo in Lombardia, col 20%, hanno perso nei collegi, ndr)». Triplicati deputati e senatori. Rappresentanza parlamentare in tutta la nazione, «a differenza di altri, questo risultato ci proietta verso il governo dell'Italia». Cose così. Mentre Matteo Renzi, il nemico perdente, mette a bagnomaria le proprie dimissioni - con molto nervosismo del M5S, ma non solo - Di Maio sorride, ammicca istituzionalmente, gigioneggia, quasi ad attrarre consensi. Per trovare la quadra della prossima alleanza l'uomo punta sui temi elettorali di sinistra ma non chiude a destra: povertà, tagli agli sprechi, immigrazione e sicurezza, lavoro, tasse, imprese. E mantiene, almeno formalmente, un distacco aristocratico dalla sua tambureggiata idea di governo; tant'è che al comitato elettorale gli sgambettano accanto solo pochissimi potenziali ministri - tranne i pasdaran Fracaro e Bonafede - e soltanto «a titolo personale». Di Maio spiega la sua vittoria: «Oggi inizia la Terza Repubblica e sarà una Repubblica dei cittadini italiani. Questo è un risultato post-ideologico, che va al di là degli schemi di destra e sinistra: riguarda i grandi temi irrisolti della nazione». MOLTO ISTITUZIONALE Concione molto istituzionale, lessico in doppiopetto. Di Maio si gode gli applausi, anche di chi lo guardava con indifferenza, uno su tutti l'economista Jean Paul Fitoussi che giudica il M5S capace di una sorta di «ermafroditismo politico capace di catturare consensi in varie fasce sociali e anagrafiche...». Eppoi, eccolo, Di Maio,nell'apertura «al confronto con tutte le forze politiche a partire dalle figure di garanzie che vorremo individuare per le presidenze delle due camere ma soprattutto per i temi che dovranno riguardare il programma di lavori...». E qui si svela la complessa strategia del Movimento per inerpicarsi lento pede alla Presidenza del Consiglio. Essendo i pentastellati il primo gruppo parlamentare toccherà probabilmente a loro, almeno in prima battuta, provare a esprimere una candidatura per la presidenza di almeno uno dei due rami del Parlamento. E pare che, per la prima votazione fissata il 23 marzo a Montecitorio, sullo scranno della Boldrini Di Maio voglia piazzare direttamente Di Maio. C'è un motivo strategico. Da inquilino di Montecitorio avrebbe il vantaggio di essere parte attiva nelle consultazioni al Quirinale in doppia veste. Sarebbe effettivamente la prima istituzione ad essere consultata al Colle da Presidente della Camera insediato il nuovo Parlamento. E sarebbe, però, anche l'ultimo a essere consultato al Colle nelle vesti di leader del gruppo parlamentare più numeroso, il Movimento Cinque Stelle. In questo modo sarebbe anche più agevole la possibilità di richiedere al capo dello Stato un mandato esplorativo formale a proporre a tutte le altre forze politiche un governo M5S da lui stesso presieduto e più volte reclamato in campagna elettorale. Anche se si tratta - come in questo caso - dell'affermazione di un partito senza maggioranza autonoma, la suddetta candidatura agevolerebbe patti, accordi di governo, “cortesie istituzionali” con altre forze politiche. Soprattutto la Lega. Che qualcuno ritiene possa - per il medesimo motivo - candidare alla Presidenza del Senato lo stesso Salvini. Non sarebbe la prima volta: la storia contempla fior di mandati esplorativi con maggioranze fragili (a cominciare da quello di Franco Marini ai tempi di Prodi); e contempla anche varie spinte di moral suasion interne che promanano da incarichi istituzionali e che trasformano quei mandati in “incarichi pieni”. Senza considerare che, nel caso l'ascesa a Palazzo Chigi fallisse, il buon Di Maio rimarrebbe comunque terza carica dello Stato, col vantaggio di avere una presenza influente sugli sviluppi successivi della prossima, inquieta legislatura. Insomma, dato che per i grillini ogni cosa è illuminata - come diceva lo scrittore Jonathan Safran Foer - e tutto può succedere, Gigino si prepara al tutto. Anche a un apparentamento con Leu («Aperti a confronto con Pd e M5s, mai con la destra», afferma Grasso). L'APERTURA DI GRASSO Anche e perfino, a quella alleanza fra «due formidabili populismi, Lega e M5S» auspicata da Steve Bannon, il teorico di Trump, che sulla federazione ecumenica dei populismi - in senso positivo - ci ha costruito una carriera. Alleanza, questa, rifutata in modo assoluto da Salvini. Finora... di Francesco Specchia

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