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Pd, partito del disastro. Piano segreto: per non sparire cambia nome

Giulio Bucchi
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Serve quello che nel marketing chiamano restyling del marchio, del brand. Non si tratta di fare un altro partito, di "rottamare" il Pd, operazione ad altissimo rischio e con poche certezze. Quanto, piuttosto, di rinnovare completamente quello che c' è. A cominciare dal brand, Pd, che non funziona più. Archiviata l' idea di fare l' En Marche italiano, Matteo Renzi ha questo in mente. Del resto, la storia offre esempi di questo tipo. A cominciare da un precedente molto caro all' ex segretario del Pd. Quello del New Labour, brand inventato da Peter Mandelson, consigliere numero uno di Tony Blair, per rilanciare l' antico Labour inglese dopo la serie di sconfitte da cui proveniva. New Labour, New life for Britain era il titolo del Manifesto che nel 1996 segnò l' inizio di una nuova stagione per i laburisti inglesi. Quella che, poi, portò Blair a governare il Paese per due mandati. Leggi anche: "Renzi da prendere a calci in c****", un Cacciari brutale «Il Pd dovrebbe fare qualcosa di simile», si dice tra i renziani. Cambiare tutto, cominciando dal nome. Per poi cambiare modello organizzativo, struttura, idee. Che l' idea non sia balzana lo conferma Giovanni Diamanti, di Quorum-Youtrend: «Il Pd è un brand pressoché morto, che non funziona più. Un cambio di nome può essere interessante. Ma solo se parte di un processo che comprende un cambio di idee, di leadership, di classe dirigente». Non è detto, poi, che si debba stravolgere il nome. Anche Diamanti ricorda il caso di Blair: «Gli bastò aggiungere una piccola parola, new, ma nel contesto di un cambiamento radicale. Per questo funzionò». Del resto, sono in tanti, pur da posizioni diverse, a trarre questa conseguenza. È quello che propone Carlo Calenda, quando parla di fronte repubblicano. O Romano Prodi, quando propone di ricostruire il centrosinistra. Intanto, però, occorre capire se e quando ci sarà il congresso. Se lunedì tutto sembrava scivolare verso settembre, ieri c' è stata una frenata. Tutto dipende da cosa deciderà l' assemblea nazionale del 7 luglio. «L' orizzonte è quello del congresso, ma bisogna capire come arrivarci e quando», frenava ieri Lorenzo Guerini. Se, per dire, all' assemblea si decidesse di confermare Martina, ma affiancandolo a una segreteria collegiale, che rappresenti tutte le anime e con un mandato a tempo per il segretario, si potrebbe convocare il congresso dopo le Europee. La verità, sostengono i renziani, è che nessuno ha fretta di fare il congresso. Non lo vuole Martina, non ne è convinta la sinistra interna, che vorrebbe una discussione ampia, non ridotta alle primarie. E nemmeno, dicono, è così scalpitante Nicola Zingaretti, visto che si è appena insediato alla guida del Lazio. Di sicuro non lo vuole Renzi, che ostenta indifferenza alle decisioni interne del Pd («facessero come vogliono», dice ai suoi), ma non ha un candidato. di Elisa Calessi

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