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Giuseppe Conte, la prova del fallimento dell'avvocato premier: tutti i suoi bidoni agli italiani

Gino Coala
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Con Giuseppe Conte il problema è sempre il solito: lo prendi sul serio oppure no? Lo consideri un primo ministro a tutti gli effetti, un capo di governo vero, per quanto anomalo, e dunque responsabile delle cose che l' esecutivo fa e non fa? Oppure lo tratti come uno piazzato lì perché non desse fastidio, scelto da Luigi Di Maio e Matteo Salvini in quanto inodore, insapore, innocuo ed asettico? Leggi anche: Conte e Fico, asse contro l'autonomia delle regioni Di sicuro lui ci crede. È pieno di sé, come ha svelato quel fuorionda rubato al suo colloquio con la cancelliera tedesca Angela Merkel: «Sono molto determinato. La mia forza è che se io dico "Ora la smettiamo!", loro non litigano». E un po' per mancanza di prove in senso contrario (siamo garantisti) e un po' per amor patrio (quando Guy Verhofstadt lo ha chiamato «il burattino mosso da Di Maio e Salvini» ci siamo italicamente incazzati con l' ometto belga), è giusto dargli credito. Ma se Conte è uomo d' onore, e questo è a tutti gli effetti il suo governo, è a lui che va presentato il conto del bene e del male realizzati con la sua firma. E l' allievo prediletto del grande giurista Guido Alpa non ne esce per niente bene. A partire dall' atto di concepimento: quel contratto tra M5S e Lega di cui Conte si è vantato di essere uno degli autori, quando ha chiesto la fiducia al Senato. «Gli obiettivi che la nostra squadra di governo si ripromette di raggiungere sono affidati alla pagina scritta, perché le forze politiche che compongono la maggioranza li hanno dichiarati in modo trasparente, vincolandosi ad adottare tutte le iniziative e le misure necessarie a perseguirli». Ci sono voluti nove mesi di travaglio affinché grillini e leghisti riconoscessero ciò che era chiaro sin dall' inizio: quel testo non può vincolare nessuno, dato che su gran parte dei punti controversi sorvola o dice ogni cosa e il suo contrario. L' esempio più clamoroso è la Tav. Nel documento che Conte ha contribuito a stendere, i due partiti s' impegnano «a ridiscuterne integralmente il progetto nell' applicazione dell' accordo tra Italia e Francia». Che è un ossimoro, ovvero una presa per i fondelli, dal momento che ridiscutere il progetto significa stracciare l' intesa italo-francese. Eppure, proprio a questo nonsenso sono tornati i due partiti di maggioranza, con la mozione approvata giovedì in parlamento che riprende pari pari la surreale formulazione del contratto. SOLUZIONE RAPIDA Per una rapida soluzione della controversia Conte si era impegnato in prima persona: «Tra un po' ci sarà la sintesi», aveva promesso a ottobre. A fine anno era stato categorico: «Prima delle Europee il governo comunicherà in modo trasparente la decisione». Invece si è appena scoperto, senza alcuna sorpresa, che il 26 maggio non si saprà proprio nulla, perché la mozione approvata l' altro giorno serve proprio a rimandare ogni decisione a giugno, o a quando sarà. Un anno buttato. Ieri, per cavarsi d' impaccio dinanzi ai cronisti, pur di non rispondere alle domande Conte ha provato a scherzarci sopra: «Tav o non Tav?». Ma non c' è nulla da ridere, stiamo per perdere miliardi di euro, migliaia posti di lavoro e una fetta di futuro. E l' effetto di una persona seria come lui che cerca di buttarla in caciara è patetico. Nel faldone delle grandi incompiute è entrata ufficialmente l' autonomia che lo Stato dovrebbe concedere a Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Anche qui, lo stallo è figlio della paura dei Cinque Stelle, che non possono perdere la faccia dinanzi agli elettori meridionali. Così la faccia la perde Conte, che a fine gennaio si era impegnato con gli italiani del Nord: «Confidiamo di rispettare il termine del 15 febbraio per arrivare a una bozza da discutere». Si è smentito clamorosamente due giorni fa, dicendo che ci vorranno «mesi» per venire a capo della faccenda. VIVE DI RENDITA Il copione ormai è chiaro: Conte vive di rendita sul fatto di essere sconosciuto al grande pubblico e su un' immagine di serietà accademica che certo non hanno né Di Maio né Salvini. Pure Sergio Mattarella gli aveva concesso credito, ma il modo in cui il Capo dello Stato è intervenuto per rammendare lo strappo con la Francia rivela che non si fida più del personaggio. È lo stesso percorso che Conte ha fatto con gli imprenditori: tanti gli avevano creduto, quando nel discorso d' insediamento si era impegnato a «favorire le imprese che innovano, che assumono nuovo personale, che rispettano le regole della libera competizione». È durata fin quando, su pressione dei compagni a Cinque Stelle, il governo ha approvato il "Decreto dignità", utile alle aziende come un calcio nei denti. L' ultima promessa Conte l' ha fatta agli italiani: sarà un 2019 «bellissimo» e non servirà «alcuna manovra correttiva». Parole da conservare, perché con l' aria che tira sui conti pubblici rischiano di segnare il passaggio definitivo di Conte dall' eletta schiera dei "nuovi", quelli di cui ci si può fidare, al gruppone dei professionisti della politica, bugiardi per definizione. di Fausto Carioti

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