Roma, 13 dic. (Adnkronos) - Occorre "maggiore prudenza nel dare giudizi sul fatto che le riforme attuate dal governo non hanno funzionato". Ad affermarlo è il premier Mario Monti, parlando all'assemblea dell'Anfia. Le riforme, aggiunge, "hanno bisogno di tempo per dispiegare i loro benefici". "I costi ad essa associati, che sono purtroppo ineludibili, vengono invece immediatamente percepiti" e "paradossalmente - ammonisce il premier - interrompere le riforme prima che possano dare i loro frutti è perfino peggio che non farle". "Alcune riforme - ricorda - sono state fatte dal precedente governo, lasciando moltissimo da fare " e "questo moltissimo si è imbattuto in quest'ultimo anno prima delle elezioni". Poi, ricordando come le riforme rappresentino il "filo rosso" che lega l'azione del governo, si corregge con una battuta: "Filo rosso? Meglio un filo incolore". L'Italia e la sua industria hanno sofferto, evidenzia, "di un lento ma inesorabile processo di erosione della competitività nazionale, in atto da tempo ma a lungo sottovalutato. Mi correggo, non è inesorabile - puntualizza poi - perché questo processo può e deve essere invertito, ma è in essere da molti e molti anni". E il governo, spiega, "ha agito sulle leve della competività con un'azione di riforme mirate a promuovere la concorrenza e a scardinare rendite di posizione". Soffermandosi poi sulla richiesta avanzata dall'Anfia, di una "legislazione competitiva", questa deve essere "un obiettivo di qualsiasi governo", chiosa. 'Il premier sottolinea come "per affrontare l'emergenza finanziaria non si può largheggiare in sostegni né fiscali né finanziari". "La stabilizzazione del mercato dei titoli del debito sovrano, realizzata in questi mesi, è presupposto essenziale - sottolinea - per far ripartire il credito all'attività economica". "In tutti questi mesi l'azione che è stata svolta dal governo è stata quella di fare dell'Italia un partner credibile nei bilanci", spiega Monti. "Tutti noi - osserva - siamo corresponsabili della quotazione nel mercato della credibilità e dell'immagine dell'aggettivo italiano, che è unico, indissociabile e quindi ognuno di noi, con ogni cosa che fa e che dice in qualsiasi tipo di attività, sposta in modo millesimale la quotazione di questo aggettivo. Credo, e sono sicuro, che l'Italia, per quanto riguarda la sua parte governativa, i poteri pubblici, opererà sempre di più e sempre meglio per alzare la quotazione di immagine e di credibilità dell'Italia, che può indubbiamente ancora migliorare". "L'Italia - sottolinea il premier- ha strutturalmente, tradizionalmente avuto un gap di credibilità, di immagine e di rispetto. Credo che questo dipenda da due circostanze: una è l'autodenigrazione, forse non ce ne rendiamo conto, certamente non abbiamo quella arroganza che ci piace di identificare in altri Paesi e che credo facciamo bene ad evitare. Ma spesso ci manca ingiustificatamente il rispetto di noi stessi: siamo più pronti a presentarci in modo riduttivo, diminutivo; e un altro atteggiamento, che si alterna con il primo, è che abbiamo dei soprassalti di indignazione se qualcuno critica noi, che nel resto del tempo ci autocritichiamo e ci denigriamo". "Questi fenomeni sono abbastanza strutturali e permanenti, credo che dobbiamo batterci tutti, giorno per giorno, non solo per migliorare la sostanza e il contenuto dell'Italia, ma anche - insiste - per smorzare questi due fattori che si autoalimentano a spirale. E' un fenomeno che dura da molto, molto tempo". Il presidente del Consiglio, chiudendo il suo intervento, ricorda poi un aneddoto: "Nell'ottobre del 1994, andai a Bruxelles a conoscere il presidente della Commissione europea, Santer. E il presidente Berlusconi mi disse di telefonare a Palazzo Chigi appena avuto il colloquio". E così fece Monti dopo l'incontro. "Chiamai Berlusconi che mi disse 'so già tutto perché Santer mi ha telefonato dicendomi 'molto bene quel Professor Monti che mi ha mandato, non sembra neanche un italiano. E - ha riferito oggi il premier- ricordo con assoluta condivisione l'indignazione che mostrò Berlusconi nel sentire pronunciare quelle parole da un'autorità straniera, anche se a fin di bene".