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Silvio Berlusconi, parla l'amico del giudice che condannò il Cav: "Disse che ci furono pressioni molto dall'alto"

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Giuseppe Moesch, amico fraterno di Renato Franco, il giudice di Cassazione morto nel 2019 e componente del collegio che il primo agosto 2013 condannò Silvio Berlusconi a quattro anni per frode fiscale e che poi confessò allo stesso Cavaliere quanto quella sentenza fu "pilotata da molto in alto", difende l'amico in una intervista al Giornale. "Ero accanto a Franco nei giorni della sentenza. Lui è sempre stato profondamente disgustato dalla giustizia politicizzata. Un paio di volte mi è capitato di accompagnarlo a votazioni per il Consiglio superiore della magistratura. Non era sereno, sapeva che la politicizzazione del Csm stava diventando sempre più pressante e invadente. Viveva tutto questo con grande irritazione, a volte addirittura sofferenza, perché non poteva essere una giustizia faziosa l'approdo per cui aveva rinunciato alla carriera universitaria".

 

 

 

 

Della condanna di Berlusconi in primo e secondo grado che pensava? "Ben prima del suo coinvolgimento diretto nel processo, essendo lui un grande esperto di questioni tributarie, si era fatto l'idea che non ci fossero i presupposti per una sua condanna, cosa del resto poi confermata da una sentenza del tribunale civile di Milano. Ma soprattutto non c'era motivo di accelerare il giudizio della Cassazione incardinando il fascicolo nella sessione feriale di agosto invece che in quella naturale in autunno. Da subito gli sembrò un'anomalia, una forzatura sospetta". E quando cominciarono le udienze? "Da subito mi aveva confidato il dissenso con gli altri magistrati del collegio che sembravano prevenuti, come se la sentenza fosse già decisa da prima. Me lo disse con estrema chiarezza: ci sono pressioni molto forti, da più parti e alcune da molto in alto per chiudere velocemente la questione con una condanna. Mi disse che qualcuno lo stava spingendo a uniformarsi e non sollevare eccezioni". Ma alla fine ha firmato la sentenza. "Non esattamente. Lui come relatore avrebbe dovuto scriverla la sentenza, invece si limitò a scrivere la premessa e si rifiutò di scrivere il resto pur apponendoci la firma per quello che lui riteneva una ragione di stato, per quel senso del dovere di cui ho parlato. Fu il massimo del compromesso con sé stesso che trovò per lasciare un segno del suo disaccordo".

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