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Luigi Di Maio pentito? Dalla Guidi a Lupi, ecco tutti gli impiccati dal grillino che ora rinnega se stesso

Luigi Di Maio

Filippo Facci
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D'accordo che questo è un Paese cattolico, e che bastano tre Ave Maria per considerarsi ravveduti: ma non è che, allora, puoi dare l'assoluzione a Erode se d'un tratto si mette a gridare «save the children»; ergo, rispettando le proporzioni, non è che puoi darla al capo grillino Luigi Di Maio se d'un tratto manda una letterina al Foglio (ieri) e dice «Mai più gogna, chiedo scusa», questo a margine dell'assoluzione di Simone Uggetti, l'ex sindaco di Lodi. Allo stesso modo, non è che noi ora possiamo elencare tutte le volte che i grillini hanno preteso la gogna d'istinto (non per opinione: per riflesso) quando poi i fatti giudiziari li hanno clamorosamente smentiti, posto che la gogna andrebbe rifiutata in qualsiasi caso. Cioè: ieri è arrivato bello bello Luigi Di Maio che a margine della sua frenetica attività alla Farnesina (è praticamente disoccupato) ha letto l'impressionante sfogo dell'assolto Simone Uggetti - una vita politica e personale distrutta per niente - e si è ricordato di quando i grilli scesero in piazza a chiederne le dimissioni, non da soli, e quanto lui, Di Maio, contribuì «a esacerbare il clima»; quindi ha rammentato i sit-in, la «campagna social molto dura a cui si aggiunse il presidio in piazza», gli «attacchi che proseguirono per settimane e si allargarono al governo centrale», insomma il modus comportamentale classico del cane pavloviano-grillino quando si accende la lampadina delle manette.

 

 

Insomma, altro che ave marie e letterina al Foglio: non è definibile la sua faccia che, a questo punto della nostra e sua storia, se ne esca soave con un «vorrei aprire una riflessione che credo sia opportuno che anche la forza politica di cui faccio parte affronti quanto prima» (vabbeh, farà dei disegni) inteso come dibattito su «l'utilizzo della gogna come strumento di campagna elettorale». Ma certo. Non possiamo negare il dibattuto, chessò, a una iena che voglia discutere di denti, unghie e cadaveri, non potremmo negarlo a Marco Travaglio che domattina se ne uscisse con una critica sull'uso distorto delle manette negli ultimi quarant' anni, e magari su una riabilitazione di Craxi, Berlusconi e Luciano Moggi. Ma a Travaglio non accadrà. Avrà pure un decoro. E invece Di Maio no, tocca apprendere da lui che ci sono «assoluzioni di cui non c'è traccia quasi da nessuna parte» e che «esiste il diritto delle persone di vedere rispettata la propria dignità fino a sentenza definitiva e anche successivamente»: possibilmente in questa vita, visto che l'abolizione grillina della prescrizione allunga i tempi sino all'aldilà. Di Maio «pensa ancora al caso Tempa Rossa che coinvolse Federica Guidi», ci pensa e basta, noi invece ricordiamo che nel marzo 2016 il caso occupò per giorni le prime pagine dei giornali e portò alle dimissioni dell'ex ministra dello Sviluppo economico: poi, nel gennaio successivo, fu chiesta l'archiviazione, ma quanti lo sanno? Il Corriere riportò la notizia a pagina 11, Il Fatto Quotidiano a pagina 9, i 5Stelle (anche qui: non da soli) avevano chiesto le dimissioni per lei e anche per la collega alle Riforme, Maria Elena Boschi, citata in una intercettazione agli atti della procura di Potenza in cui il ministro Guidi parlava col fidanzato. Di Maio, pure, «pensa al caso Eni» (tutti i 15 imputati, comprese Eni e Shell, assolti «perché il fatto non sussiste» e quindi dovrebbe pensare anche a quando Alessandro Di Battista e Carlo Sibilia chiesero le dimissioni dell'amministratore Claudio De Scalzi e il commissariamento dell'azienda, anche perché, disse Di Battista, «noi avevamo studiato le carte e denunciato tutto in Parlamento»: e la notizia era questa, che avevano studiato.

 

 

IL CASO ROLEX - Poi i pensieri di Di Maio sul Foglio però finiscono, i giga di memoria sono pochi. Ci sarebbe Maurizio Lupi, che non fu neppure indagato ma il cui figlio accettò un Rolex da un imprenditore come regalo di laurea: dimissioni da ministro, attacchi orrendi dei grillini a lui e alla famiglia, i deputati pentastellati ad agitare orologi in Parlamento, tafferugli ed espulsioni, poi archiviazioni per tutti, ma non per il Ministro delle Infrastrutture che appunto non era stato neanche indagato. Dicevamo della Boschi e inevitabilmente di suo padre Pierluigi, vicepresidente di Banca Etruria e accusato di bancarotta fraudolenta e bancarotta semplice. Il blog delle stelle, nell'agosto 2018, aggiunse carichi spaventosi in una pubblica lettera: «Sapevi che tuo padre incontrava Flavio Carboni (già condannato per il crac del banco Ambrosiano, quello per il quale venne ammazzato Calvi) a poche centinaia di metri dal tuo ufficio da ministro per chiedergli aiuto per Banca Etruria, lo stesso aiuto che tu chiedevi a destra e a manca utilizzando il tuo ruolo da ministro?». Archiviata la prima accusa e, nell'agosto del 2020, anche la seconda: ai tempi, Di Maio non «pensava». Forse erano i tempi di generici striscioni in aula tipo «Fuori i mafiosi dal Parlamento». Non si può neanche dire che a essere corresponsabili siano le eventuali e scomposte reazioni degli indagati, non almeno nel caso di Antonio Bassolino, uno che è stato assolto 19 volte in 27 anni (senza mai ricorrere alla prescrizione) e l'ultima volta lo è stato nel novembre scorso. I grillini però l'hanno sempre trattato come se fosse radioatttivo. Quando fu indagato per più eclatante dei processi che ha subito, quello come commissario per i rifiuti in Campania, i grillini neppure esistevano: ma a invocare le dimissioni provvide il facente funzioni Antonio Di Pietro, con la sua Italia dei Valori. Però, nel 2015, quando mancava meno di un anno alle comunali di Napoli e Bassolino stava meditando se ripresentarsi, ecco Luigi Di Maio, quello che pensa: «Se gli elettori preferiscono politici come Bassolino, che ne paghino le conseguenze». Il risultato è che, a forza di sostenere i magistrati, se ne ritrovarono uno come sindaco.

 

 

GUARDIAMO AL FUTURO - Ma scurdammoce 'o passato, direbbe Luigi Di Maio. Giusto. Guardiamo al futuro. Anzi, al presente. In gennaio hanno indagato per associazione a delinquere aggravata (faccende mafiose) anche Lorenzo Cesa, segretario dell'Udc che si è subito dimesso. E non sappiamo come finirà. Lui ha detto di ritenersi «totalmente estraneo» ai fatti e il Procuratore Nicola Gratteri ha precisato che è indagato per via dei suoi «contatti». I giornali hanno pubblicato molte intercettazioni in cui Cesa non c'è mai, però si parla di lui e delle sue buone relazioni. Che ne «pensa» Di Maio? Pensa quello che ha detto, forse: «Mai il Movimento potrà aprire un dialogo con soggetti indagati per mafia o reati gravi». Niente dialogo: non gli parlano neanche. Dobbiamo aspettare un'assoluzione in Cassazione, che, come detto, con l'abolizione della prescrizione potrebbe giungere in un'altra vita. Per ora siamo vivi e no, noi nun scurdia mo 'o passato. Non dimentichiamo niente.

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