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Mario Draghi al Quirinale, dietro le quinte: Pd disperato, i compagni ora confidano in Salvini e Meloni

Pietro Senaldi
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Avviso ai naviganti. «Se Draghi andrà al Quirinale, gli italiani andranno alle urne prima della scadenza naturale della legislatura, perché non c'è nessuno in giro che abbia l'autorevolezza dell'attuale premier e possa tenere insieme una maggioranza così eterogenea» sibila il coordinatore di Forza Italia, Antonio Tajani. È un'altra conferma, a distanza di ventiquattr' ore dalla dichiarazione di Matteo Salvini, che ha fatto sapere che farà di tutto per evitare che anche il prossimo presidente della Repubblica arrivi dal Pd, di come la campagna di Libero «NO a chi vuole rubarci il Quirinale» abbia colto nel segno. 

 

Il centrodestra si è rianimato e ricompattato; la corsa al Colle ora è diventata una battaglia comune della coalizione, non un percorso autonomo dei tre leader l'uno rispetto all'altro. La frase di Tajani arriva all'indomani del giorno più buio per il Pd, costretto a prendere atto di quanto era evidente a tutti, ovverosia che insistere per un secondo mandato a Mattarella avrebbe configurato il reato di stalking, mentre rieleggerlo contro la sua volontà ripetutamente manifesta sarebbe un sequestro di persona. Il gran rifiuto del presidente ha riportato d'un tratto i democratici nella realtà. Pare che perfino Letta e Bettini abbiano compreso che è inutile tirare fuori dallo stanzino delle scope i polverosi manichini di Finocchiaro, Violante, Bindi, Veltorni o chicchessia, perché a questo giro la sinistra non ha i numeri per imporre uno dei suoi e il centrodestra non pare disponibile a fare regali. Tantomeno Renzi, che si sta mettendo d'accordo con Toti e il centro per raggruppare un pacchetto di un'ottantina di grandi elettori determinanti per decidere la partita. 

Ecco che allora il Pd da ieri si è rassegnato a votare per Draghi, confidando sull'appoggio di Fdi e Lega, ai quali conviene ingraziarsi l'ex governatore, che a differenza di Mattarella non farebbe carte false pur di non dare l'incarico di formare il governo a Meloni o Salvini in caso di vittoria del centrodestra. Idem sperano anche che Berlusconi alla fine si rassegni e anzi, a giochi quasi fatti, sia il primo a salire sul carro dell'ex governatore, per intestarsi una vittoria e non passare per sconfitto. La sinistra è già al lavoro per trovare l'accordo su un presidente del consiglio che sostituisca Super Mario, in modo da fornire ai grillini un ticket pronto Quirinale-Chigi, che garantisca ai pentastellati un anno ancora in Parlamento pagati. Ma ecco irrompere sulla scena il «non ci sto» di Tajani, in diretto collegamento con Arcore. È il segnale che Berlusconi venderà cara la pelle. 

 

È quasi una minaccia per i 330 grillini ed ex grillini alle Camere, praticamente un terzo dei grandi elettori, il 70% dei quali certo di non tornare mai più in Parlamento: con Draghi al Colle, la mangiatoia per i pentastellati è finita e il futuro che li attende non è da dispensatori bensì da percettori del reddito di cittadinanza, sempre che i futuri deputati non lo aboliscano. Ma è un altolà anche per la pattuglia di centristi, folta più che consistente: se si vota a stretto giro di posta, addio sogni di proporzionale, tramonta il progetto di fare da ago della bilancia, i numerosi leaderini dovranno andare a ruota dei due schieramenti o compattarsi tra loro in modo di raccogliere qualche briciola nelle urne. Impossibile prevedere come andrà a finire. Al momento Draghi resta il favorito e Berlusconi un outsider di lusso. La notizia è che il centrodestra ha smesso di litigarsi il nulla e ha finalmente preso consapevolezza di sé, ed è questo che fa venire i bruciori di stomaco al Pd. 

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