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Mario Draghi al Quirinale, "missione compiuta". L'indiscrezione: le parole che lanceranno la candidatura del premier

Alessandro Giuli
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Da Palazzo Chigi o dal Quirinale, l'unica certezza è che Mario Draghi resta il king maker nazionale e internazionale nella delicata fase di transizione che ci attende. Nel suo discorso di fine anno, mercoledì sera, l'attuale presidente del Consiglio non utilizzerà certo toni trionfalistici, eppure il messaggio sarà piuttosto chiaro: un sobrio "veni-vidi-vici" nel quale l'ex banchiere centrale europeo illustrerà il raggiungi-mento degli obiettivi per i quali il presidente Sergio Mattarella l'ha così fortemente voluto al comando di un'Italia afflitta dalla pandemia e minacciata dalle incertezze economiche relative al Recovery Plan. Ebbene, Draghi sottolineerà che la nostra Nazione è fra le prime al mondo per vaccini anti Covid-19 somministrati e che la messa a terra del Pnrr può dirsi completata; per dirla in burocratese: per il di più a praticarsi sono sufficienti i poteri rimasti nelle mani del generale Figliuolo e le tracce protocollari assegnate agli uffici tecnici ministeriali. Se tutto ciò sia il prologo di un'imminente ascesa al Quirinale non spetta a Draghi stabilirlo né preannunciarlo, posto che l'opzione presidenziale rientrava nei presupposti ideali dell'operazione post Conte bis fin dapprincipio e che la legittima aspirazione al settennato sembra essere il sottotesto implicito dei silenzi di Draghi. Ma qui entrano in gioco altri fattori, interni e no.

 

 

 

Circa i cosiddetti condizionamenti internazionali di cui Libero ha già dato conto ieri, ovvero i ripetuti elogi ricevuti dalla stampa dell'establishment finanziario (dal Financial Times all'Economist) non senza un corredo di preoccupazione per la continuità d'indirizzo a Palazzo Chigi, è bene sfatare anzitutto un tabù provinciale: il mercato e i suoi blasonati portavoce tifano per la stabilità (e per un certo rigore nella spesa dei soldi del Recovery), ma poi raccolgono le più ondivaghe impressioni provenienti dai settori dell'economia e dai corpi intermedi italiani. Il risultato è che, con Draghi alla presidenza della Repubblica, ci si attende la sopravvivenza del "draghismo" a Palazzo Chigi sia pure passando per elezioni anticipate. A prescindere dal nome e dal profilo dell'eventuale successore a Palazzo Chigi, è la "dottrina Draghi" a dover prevalere nelle leve operative dello Stato. Ma non tutti i partiti sono dello stesso parere, com' è ovvio. A margine del generico e trasversale appello al ritorno della politica, a maggior ragione dopo la sortita di Matteo Salvini sulla necessità che Draghi non si smuova dal proprio posto, serpeggia in realtà un desiderio d'impossessarsi della sua agenda e al tempo stesso costruire una cornice di riferimento vantaggiosa sopra il Colle più alto. Insomma un accordo con un pezzo fondamentale del Partito democratico (tendenza Dario Franceschini) per condividere un nome politico sul Quirinale e predisporsi a mettere entro parentesi la stagione del tecnogoverno dalla larga (e sempre più litigiosa) maggioranza nell'arco di un 2022 che diverrebbe così un anno di campagna elettorale permanente. Conviene?

 

 

 

NESSUNA COSTRIZIONE - Chi conosca Draghi sa che un "over the top" settantaquattrenne come lui non sarebbe disponibile a farsi eterodirigere né a fungere da spartitraffico parlamentare. Dietro il suo volto di sfinge gesuitica c'è da una parte la ferma volontà di affermarsi sino all'ultimo secondo disponibile come il civil servant che ha svolto il proprio compito con spirito d'abnegazione e successi palpabili; e dall'altra parte c'è il terminale di un multiforme paesaggio internazionale che intende la competenza tecnica come una forma della sovranità politica (basti guardare al braccio di ferro appena ingaggiato da Palazzo Chigi sulla riformulazione del Patto di stabilità e sulle regole d'ingresso nei confini nazionali). Ergo: alla rivendicazione pubblica della missione compiuta, mercoledì, il king maker dovrebbe accompagnare una felpata moral suasion istituzionale per far comprendere a tutti gli interlocutori che la meccanica per l'elezione del successore di Mattarella non potrà non riverberarsi sulla tenuta del governo. Come a dire, preventivamente: ritenuto concluso il mio lavoro, potrei anche rimettere il mandato a disposizione del Capo dello Stato; e cioè a me stesso, se avrete trovato la forza corale per un'intesa sul mio nome, oppure a un'altra autorevole figura che dovrà gestire una fase turbolenta alla ricerca di un nuovo Draghi o di un Draghi bis con l'incombere dello scioglimento anticipato delle Camere come alternativa plausibile. Di nuovo: conviene?

 

 

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