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Mario Draghi? I partiti fingono di accettare la tregua con il premier: il retroscena

Elisa Calessi
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Il giorno dopo la strigliata di Mario Draghi ai partiti, da entrambe le parti si cerca di stemperare. Se il premier, in conferenza stampa, assicura di contare «sul Parlamento e sulle forze politiche», ridimensionando a «normali divergenze» le tensioni del giorno prima all'interno della maggioranza, nelle forze politiche si assiste a una (parziale) corsa al sostegno del premier. Non che Draghi vada a Canossa. Ricorda che «il mandato del nostro governo» è risolvere le «emergenze e conseguire certi risultati». Insomma, siamo qui per pedalare. Ma viene incontro ai partiti, ammettendo che «confrontarsi e rispettarsi è molto importante, su questo non c'è mai stato nessun dubbio». E li rassicura su quel confronto che, lamentano un po' tutti, è piuttosto carente: «Se c'e' bisogno, massima disponibilità dal governo al dialogo, abbiamo sempre offerto tutta la disponibilità e se necessario rivedremo certe modalità di dialogo e confronto. Ma», aggiunge, «teniamo dritta la barra del timone». E gli torna la voglia di scherzare: «Avete visto che bravi ministri che ho? È un bellissimo governo».

 

 

INSOFFERENZA
Tutto è bene quel che finisce bene? Non tanto. In realtà, è solo dal Pd e dal centro (Italia Viva, Coraggio Italia), che arrivano parole di sostegno a Draghi. Molto più freddo è il centrodestra, Lega ma anche Forza Italia, mentre tace il M5S. Segno evidente che l'insofferenza è ancora molto forte. I paladini del premier ci sono. Osvaldo Napoli, di Coraggio Italia, definisce «stucchevole» il confronto politico con i leader «che sgomitano per posizionare il partito in una condizione di vantaggio elettorale, convinti che chi uscirà vincitore dalle elezioni nel 2023 governerà l'Italia». Anche dopo il 2023, è la tesi, l'Italia avrà bisogno di Draghi. Se Benedetto Della Vedova, così come Maurizio Lupi, danno ragione a Draghi, Ettore Rosato, di Italia Viva, ricorda che il suo arrivo «ha rivoluzionato la politica del nostro Paese». Dichiara la sua fedeltà a Draghi il Pd: «Garantiamo il massimo impegno e la stabilità del governo», ha detto Simona Malpezzi, capogruppo dem al Senato. Meno entusiasmo si respira nel centrodestra. «Nella lealtà», dice Maurizio Gasparri, «rientra anche la possibilità di esprimere le proprie opinioni». Quanto agli emendamenti al Milleproroghe su cui il governo è stato battuto, Antonio Tajani, coordinatore di Fi, ricorda che «è il Parlamento che controlla l'attività del governo non viceversa». E toni ancora più critici arrivano da Fratelli d'Italia, dove Lino Ricchiuti ricorda che il Parlamento non può essere «ridotto a corte del Re. Qualcuno dovrebbe spiegare al presidente Draghi che il governo si chiama esecutivo perché esegue le leggi che fa il Parlamento». A microfoni spenti si riconosce che, dopo la settimana del Quirinale, qualcosa si è rotto. «E' chiaro», spiega un parlamentare tra i più convinti sostenitori del premier, «che per Draghi la pazienza è finita». A questo si aggiunge il fatto che «i leader non tengono più le forze politiche». C'è poi chi vede la situazione ancora più complicata: «Draghi», osserva un deputato della maggioranza di centrodestra, «sta cercando il pretesto per sganciarsi dopo la delusione del Quirinale». Ma è riduttiva l'immagine di partiti che si comportano come bambini capricciosi.

 

 

LE CARTE
«Le carte», osserva un ministro, «non arrivano. Non vediamo i decreti prima che entrino in cdm. Non si sa nulla. Fanno tutto lui e Franco». La lamentela generale è che Draghi non si confronti con i partiti e che, in sostanza, si rifiuti di fare il capo della maggioranza. «Non ha mai gestito questo governo in modo politico», accusa un altro esponente di primo piano. Una situazione che è stata tollerata nel primo anno di governo. Ora che siamo nell'ultimo anno di legislatura, le cose sono cambiate. «Fin qui ha giocato l'assenza di alternativa. Ora lo scenario è diverso». Se il governo dovesse cadere si arriverebbe comunque a settembre e la pensione sarebbe salva. Dopo di che, se anche si votasse in autunno, si tratterebbe di anticipare di pochi mesi la scadenza naturale. Dunque, la pistola del voto anticipato è scarica. «O scende ai patti», si dice, «o alza la tensione e quando non ce la fa più se ne va». 

 

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