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Silvio Berlusconi, ecco perché tace su Vladimir Putin: "Se parlasse...", indiscrezioni da Arcore

Alessandro Giuli
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Silvio Berlusconi tace ma non acconsente. Il suo riserbo sulla sciagurata guerra tra Russia e Ucraina è direttamente proporzionale alla sofferenza che gli procura vedere l'amico Vladimir Putin trasformarsi in un autocrate invasore che si attira addosso l'odio e le ritorsioni economiche a doppia lama del mondo libero occidentale. Così ce lo descrivono da giorni alcune ricostruzioni giornalistiche, culminate nell'indiscrezione circa una telefonata diretta nella quale il Cavaliere avrebbe cercato invano di far ragionare il capo del Cremlino e soprattutto di ammonirlo sul rischio che la situazione internazionale sfugga di mano trascinando il mondo in un conflitto totale. Intanto le malelingue, mai assenti in guerra e in pace, si baloccano nel circo mediatico attribuendo all'ex premier un presunto imbarazzo che sarebbe all'origine del suo mutismo: troppo vicino al presidente russo, il Caimano di Arcore, per uscire allo scoperto in questo momento di sdegno e di paura. La verità è che quello di Berlusconi è il silenzio dell'innocente; non c'è photo opportunity o dichiarazione di stima e di affetto verso Putin - gli antipatizzanti ne hanno ripescate diverse - che possa inchiodarlo anche solo al sospetto dell'intelligenza con l'illiberalità. Viene sin troppo facile ricordare che Berlusconi fu l'artefice di un capolavoro diplomatico andato in scena il 28 maggio del 2002 a Pratica di mare, base militare italiana nella quale - sotto gli auspici di Palazzo Chigi - i rappresentanti di 19 Stati membri della Nato fra i quali il presidente americano George W. Bush sottoscrissero una storica intesa con la Federazione Russa: la Dichiarazione di Roma. Con quell'accordo nasceva un Consiglio a 20 (Nato+Russia) vincolato a un patto di mutua consultazione e assistenza in materia di sicurezza e terrorismo, non proliferazione delle armi di distruzione di massa, operazioni di salvataggio in mare, cooperazione militare e riforma dei sistemi di difesa e d'intervento nelle emergenze civili.

 

 

 

TRIONFO DIPLOMATICO

Nella circostanza, taluni ironizzarono sulla cura manicale con cui Berlusconi organizzò l'evento, interessandosi perfino della scenografia attraverso la selezione di adeguate fioriere. «Pe rla prima volta la Russia entra in Occidente», commentò lui che - si sa - ama più fare l'amore che la guerra e stava letteralmente mettendo fiori nei cannoni arrugginiti della Guerra fredda, rendendo possibile un percorso di stabilizzazione politica e di prosperità economica senza precedenti. I rapporti con Putin si sono poi rafforzati anche sul piano personale, malgrado la dura prova della guerra in Iraq del 2003 voluta dagli Usa assieme alla coalition of the willing, la coalizione dei volenterosi di cui fece parte anche l'Italia. Eppure, da Pratica di mare in poi, per circa dieci anni l'Europa ha vissuto una stagione di fecondi rapporti con Mosca di cui sono prova tangibile il reticolato dei gasdotti e il volume degli scambi commerciali che hanno massimamente premiato la Germania di Angela Merkel. Tutto ciò fino a che, nel 2011, le genuine istanze di rinnovamento sociale che abbiamo chiamato "Primavera araba" non si sono rovesciate su se stesse trasformandosi in un calamitoso fattore di destabilizzazione di cui la Francia di Sarkozy ha cercato di approfittarsi per intervenire militarmente in Libia, con gli alleati occidentali riluttanti al seguito, al fine di rimuovere Gheddafi - altro amico dell'Italia, ricevuto a Roma nel 2010 con tanto di tende beduine, cavalli e amazzoni, poi finito scannato in un tombino nel deserto - e guadagnare terreno nel grande gioco neocoloniale africano.

 

 

 

LA SVOLTA DEL 2011

Risultato: in pochi mesi, l'Italia ha perso una quota fondamentale della propria sfera d'influenza politico-energetica in Maghreb. E l'ultima roccaforte a cadere fu appunto la premiership berlusconiana, travolta dalla crisi invernale dello spread. I testimoni di quella vicenda ricorderanno che il Cavaliere era da tempo al centro d'una campagna di delegittimazione mediatica legata alle sue disavventure sentimentali e giudiziarie, con un limaccioso corredo di rivelazioni boccaccesche sul "lettone di Putin" a Villa Certosa, regalo presidenziale contraccambiato anni dopo da un meno celebre copripiumino con foto a stampa dei due amici in posa sorridente. A posteriori, non pochi osservatori hanno ipotizzato che la caduta del Cavaliere fosse dipesa anche dalla progressiva indipendenza dell'Italia sullo scacchiere internazionale, malgrado la specchiata fedeltà atlantica berlusconiana, e che sia stata per così dire incoraggiata dall'estero, con Parigi in prima fila e Washington complice (alla Casa Bianca c'era il democratico Barack Obama, teorico del leading from behind...). Fatto sta che dopo tre anni, nel 2014, con il signore di Arcore uscito di scena e le sinistre a muovere le leve del governo, Putin si annetteva la Crimea e la Libia precipitava nell'incubo di una guerra civile combattuta per procura e poi direttamente anche da Mosca (attraverso i mercenari del Gruppo Wagner, ora giunti fino in Sahel), come già avvenuto in Siria. Se oggi - pensionati Obama e Merkel, con Sarkozy a malapena a piede libero - le potenze globali sono sul limitare della guerra atomica, è anche perché l'arco di crisi scavato nel 2011 è divenuto una linea di faglia che ha progressivamente allontanato Oriente e Occidente, rafforzato la Cina e isolato la Russia, alimentando quel dispotismo asiatico che il pacifico Berlusconi era riuscito a imbrigliare in amichevoli e fioriti festoni diplomatici. Di qui, azzardiamo, l'attuale silenzio dell'innocente. 

 

 

 

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