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Condono, quando è un'arma per difendersi dalle ingiustizie dello Stato

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Iuri Maria Prado
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Un'altra retorica insopportabile, pari demerito rispetto a quella sull'evasione, riguarda i condoni. Anche questi, i condoni, nella rappresentazione comune andrebbero messi sempre e in ogni caso tra i mali assoluti perseguiti nella Repubblica delle tasse bellissime: quella fondata sul lavoro dell'uno su sei che lavora mantenendo i cinque che magnano. Ma ci sarebbe da intendersi: è vero che il condono è un fatto patologico, ma è altrettanto vero che molto spesso interviene a sanare un'ingiustizia. In materia fiscale, in ambito urbanistico o ambientale, eccetera, si tratta sovente di illeciti maturati all'ombra di normative e imposizioni non solo irrazionali, ma appunto ingiustissime. In quei casi, dunque, condonarli non è fare i buoni con i cattivi: è smetterla di essere cattivi; non è perdonismo: è resipiscenza.

L'obiezione, a sua volta retoricamente scontata, è che il condono premia i furbi che fanno slalom tra le leggi e mortifica i poveretti che invece ne hanno sopportato il peso. Come dire che togliere le catene allo schiavo di oggi è un'ingiustizia nei confronti di chi è morto in catene. La realtà è che i condoni denunciano molto meno l'empietà di chi ne usufruisce che quella di chili ha resi necessari, vale a dire il potere pubblico che ha imposto troppe tasse, e troppo alte, troppi adempimenti inutilmente gravosi, troppi vincoli irragionevoli che troppo tardivamente vengono sciolti.

Spesso, insomma, il condono non interviene in omaggio alla brama di impunità del disonesto, ma a limitazione della soperchieria dello Stato. E l'onesto che, avendo ottime ragioni per farlo, se ne duole, dovrebbe prendersela con il potere pubblico che infligge ingiustizia piuttosto che col proprio simile che la scampa.

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