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Giorgia Meloni, il "padrone del mondo" che vuole farla fuori: chi la minaccia

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Sarebbe un errore considerare Laurence Boone, cui si deve la pretesa indecente di «vigilare» sul futuro governo italiano, "solo" il ministro francese per gli Affari europei. È molto di più. E non è un caso che a riservare a Giorgia Meloni un simile trattamento sia stata una tecnocrate con quella biografia. Il rapporto con le élite è il tallone d'Achille del prossimo presidente del consiglio, il terreno sul quale rischia di più, e lei stessa ne è consapevole. Lo dimostrano i suoi rapporti con Mario Draghi (non facili, ma di certo non conflittuali, anche per volontà e interesse della stessa leader di Fdi) e la sua ricerca di un ministro dell'Economia che assomigli a Draghi il più possibile e la copra su quel versante.

 

 


SOLDI E POLITICA
La signora Boone, professione economista, è la metafora perfetta di quel mondo che guarda con diffidenza, e in certi casi come un'anomalia da rimuovere, al governo che gli italiani si sono appena scelti. Ha lavorato come capo economista nella divisione parigina della banca d'affari inglese Barclays, nella statunitense Merril Lynch, nel colosso assicurativo francese Axa e nell'Ocse. Ha insegnato a Sciences Po, l'Istituto per gli studi politici dove Enrico Letta ha diretto la Scuola di affari internazionali. Nel 2014 prese il posto di Emmanuel Macron come consigliere economico del presidente della repubblica, il socialista François Hollande, e l'anno seguente partecipò alla conferenza del gruppo Bildenberg, che riunisce il gotha dell'imprenditoria, delle banche e della politica (tra gli italiani, quella volta, c'erano Mario Monti, Franco Bernabè e John Elkann).

 

 


Finché, lo scorso giugno, non è entrata nell'esecutivo creato dal presidente Macron e guidato da Élisabeth Borne. Il ministro francese che ieri ha quasi scatenato una crisi diplomatica, insomma, è la perfetta metafora della tecnocrazia che vive tra altissima finanza, organismi internazionali, lobbying e politica, e che per rendersi democraticamente accettabile e continuare a fare affari indisturbata sventola la bandiera dei diritti civili, come ha fatto la Boone in quell'intervista a Repubblica. Con questa stessa tecnocrazia, o almeno con una parte di essa, la Meloni sa che deve trovare un modus vivendi in nome del realismo, cioè della necessità di proteggere il debito pubblico italiano. Isolarsi significa infatti far diventare i titoli di Stato facile bersaglio della speculazione internazionale, ed è proprio questo che spera il Pd per tornare al governo il prima possibile, con o senza le «elezioni anticipate» già evocate da Enrico Letta.


Del resto l'élite europeista cui la Boone appartiene, e della quale fa parte anche Macron, è in crisi di consenso e legittimazione non solo in Italia (dove il partito che la rappresenta meglio, quello democratico, è ridotto come si sa), ma anche in altri Paesi europei. E se gli elettori vanno a destra, la tecnocrazia che pretende di guidare il continente non può continuare a far finta di nulla, se non vuole trovarsi sepolta dalle rovine delle istituzioni che difende. La sfida che attende la presidente di Fdi e del partito dei conservatori europei è proprio questa: raggiungere un patto di convivenza in nome del reciproco interesse e senza rinunciare alla sovranità nazionale. Ieri ha dimostrato di poterlo fare, sollevando per prima la questione nei confronti della Boone («confido che il governo francese smentisca immediatamente queste parole... ») e ottenendo la ritrattazione da Parigi. Le sarà necessario, però, schierare al ministero dell'Economia qualcuno che quel mondo lo conosce bene e dal quale sia rispettato.


IL MINISTRO E I GUFI
Operazione cui sta lavorando senza assistenza da parte di Sergio Mattarella (lei non l'ha chiesta, il capo dello Stato non l'ha offerta) e che ancora non è andata in porto. Il "no" di Fabio Panetta, membro del comitato esecutivo della Bce ed ex direttore generale della Banca d'Italia, pare irrevocabile quanto quello di Daniele Franco, il ministro in carica, che di restare lì, senza Draghi e in un governo politico, non ha alcuna voglia. Così l'attenzione degli uomini della Meloni si è spostata sul bocconiano Vittorio Grilli, ex direttore generale del Tesoro e ministro dell'Economia nel governo Monti, considerato vicino (o comunque non ostile) al centrodestra. Ma anche lui, al pari di Domenico Siniscalco (vicepresidente della Morgan Stanley), ha un mestiere ben remunerato a Londra, ai piani alti del palazzo della statunitense JP Morgan. Resta da vedere se vorrà lasciarlo per tuffarsi nella politica e tornare a combattere col debito pubblico e lo spread. Ed è inutile dire che nella sinistra, non solo italiana, c'è chi si augura che lui e gli altri rifiutino l'incarico, e che la distanza dalla tecnocrazia segni la condanna del governo Meloni. 

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