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Gianfranco Fini? Ecco perché la Meloni ha voluto La Russa

Fausto Carioti
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Senza il clamore che accompagna le due grandi novità annunciate da tempo –la prima volta di una donna a palazzo Chigi, la prima volta di un governo guidato dal leader di un partito di destra – ieri è avvenuto un terzo evento epocale, il primo in ordine d’apparizione: l’elezione di un ex missino al ruolo di seconda carica dello Stato. Ovvero di facente funzioni del presidente della repubblica «in ogni caso che egli non possa adempierle», come previsto dalla Costituzione.

 

 


Ignazio La Russa, insomma, è protagonista di qualcosa che va oltre l’abbraccio simbolico e l’avvicendamento su quella poltrona con Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoah. Perché conla sua elezione si chiude, finalmente, il cerchio iniziato l’8 settembre del 1943: se non nella testa degli ultimi reduci, di certo sotto il profilo istituzionale. Dagli sbandamenti di quel giorno nacquero due Italie, quella che si è proclamata erede della resistenza e quella della repubblica di Salò, che non hanno smesso di combattersi nemmeno quando terminarono gli omicidi e gli eccidi compiuti dalle squadracce rosse dopo il 25 aprile e documentati da Giampaolo Pansa. Una guerra civile combattuta prima con le armi e poi nelle istituzioni, nelle quali si sa com' è andata. Come ha scritto Ernesto Galli della Loggia (La morte della patria, libro del 1996), «la repubblica antifascista non ha dovuto sforzarsi molto per cercare la propria legittimazione. Si è incaricata la storia, infatti, di offrirgliene una, di grandissima efficacia, sotto la comoda fattispecie di una radicale delegittimazione del suo avversario, a causa della guerra da questo voluta e poi perduta». E dopo, «a scopo puramente politico-pratico», è stata creata e alimentata ogni giorno la tesi per cui la cultura cattolica e quella gramsciano-comunista, principali artefici della Costituzione, «sarebbero anche le padrone politiche della Costituzione stessa, autorizzate a scomunicare come suo "nemico" chiunque a loro piaccia».

 

 

 

Ci hanno provato anche in questa campagna elettorale, usando contro Fratelli d'Italia lo spauracchio del «fascismo eterno» teorizzato quasi trent' anni fa da Umberto Eco («Il nostro dovere è di smascherarlo e di puntare l'indice su ognuna delle sue nuove forme...»). E ovviamente, appena il governo Meloni si insedierà, il Babau in camicia nera e fez diventerà protagonista nei racconti della sinistra italiana ed europea che pretende di vivere in un perenne 1945. Ma sarà un anacronismo ancora più grottesco, dopo ciò che è accaduto ieri. L'elezione di La Russa alla prima votazione, resa possibile anche dal sostegno di una ventina di senatori di centrosinistra, ricuce la storia di quelle due Italie. L'arrivo alla presidenza del Senato di un personaggio cresciuto nel Msi, fondatore di Alleanza nazionale e Fratelli d'Italia, ha un peso per le istituzioni assai maggiore di quello che ebbe, nel 2008, l'elezione di Gianfranco Fini alla guida dell'altro ramo del parlamento. E anche questo spiega l'insistenza con cui Giorgia Meloni ha difeso la sua candidatura.


C'è quell'articolo 86 della Costituzione, innanzitutto, in base al quale «le funzioni del Presidente della Repubblica, in ogni caso che egli non possa adempierle, sono esercitate dal Presidente del Senato». Significa che, da ieri, La Russa è il "supplente" di Sergio Mattarella. Onore ed onere, quello di esercitare i poteri del capo dello Stato, che i presidenti del Senato hanno avuto più volte, in caso di 4` "impedimenti temporanei" del presidente della repubblica, quasi sempre dovuti a viaggi ufficiali all'estero particolarmente lunghi (un'emozione negata a Maria Elisabetta Alberti Casellati: nella scorsa legislatura Mattarella ha usato gli strumenti telematici per firmare a distanza leggi, decreti e documenti, evitando così di cedere i suoi poteri alla presidente del Senato). Il resto della differenza lo fa la stoffa dei due personaggi. Fini usò la carica di presidente della Camera per allontanarsi dal Popolo della libertà e cercare il riconoscimento della sinistra.

 

 

 

 

Un comportamento inimmaginabile da parte di La Russa, che il suo percorso l'ha già fatto ed è un uomo diverso dal capo del Fronte della gioventù che partecipava alle manifestazioni anticomuniste nella Milano degli anni Settanta. Lo si è visto anche ieri, nel suo primo discorso da numero due della repubblica italiana, in cui - senza rinnegare nulla di quegli «annidi militanza» - ha usato parole da uomo di Stato, richiamando pure esempi lontanissimi dalla sua cultura politica, come Sandro Pertini, Giorgio Napolitano e Luciano Violante. Qualcuno, a destra, avrà storto il naso, ma è giusto così: essere conservatori significa anche difendere le istituzioni, con tutta la loro storia. E chi a sinistra ritiene un sacrilegio che Ignazio Benito Maria La Russa oggi sia lì, un gradino sotto al Quirinale, non ha capito che è potuto succedere perché in questi decenni è cambiato La Russa, senza dubbio, ma anche e soprattutto perché è cambiata l'Italia. 

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