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Antifascismo, la grande balla: ecco perché è meglio starne fuori

Iuri Maria Prado
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Richiedere a Giorgia Meloni, e in generale a chiunque non faccia professione di antifascismo secondo il modulo Bella Ciao, di condannare l'esperienza della ventenne dittatura italiana, è doppiamente indebito e sleale. In primo luogo, perché suppone che la presentabilità civile e politica di una persona dipenda dalla compilazione di un curriculum di dichiarazioni anziché dalla somma dei fatti concreti e verificabili che ne contrassegnano la vicenda civile e politica. E in secondo luogo perché a non aver fatto i conti con il fascismo è esattamente l'Italia antifascista che ne pretende, ma dagli altri, il ripudio: e lo pretende sulla scorta della grande balla repubblicana che confina il fascismo in un inopinato blackout della democrazia italiana, imposto chissà come dalla violenza di sparute minoranze di cui la nazione maggioritaria si è trionfalmente liberata il 25 Aprile del 1945.

 

 

Questa bugia, questa contraffazione, ha un bisogno matto di avere testimonianze di abiura e rinnegazione da parte di chi non abbia appartenuto alla tradizione unica dell'antifascismo di regime, per intenderci la tradizione illustrata da tanti bei padri della Patria che scrivevano delizie antisemite sulla Difesa della Razza e prestavano senza titubanza il giuramento di fedeltà al regime fascista (mentre i tredici che non giurarono, vedi tu la combinazione, non c'è verso che siano ricordati in una che sia una delle settecentocinquantaquattro ricorrenze antifasciste di questo Paese vigliacco e bugiardo). Se ripudiare il fascismo significa condividere ciò che fa mostra di opporvisi, e cioè l'antifascismo obbligatorio da bigino de sinistra, è giusto chiamarsi fuori.

 

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