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Meloni il "presidente" (ma senza "signor")

Prima "il" presidente, poi la "presidente", poi "signor Presidente": come un articolo determinativo può influenzare la politica

Francesco Specchia
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Il quesito è gravido di dubbi. Possibile che, con tutti casini che abbiamo –carovita, guerra, inflazione, Memo Remigi che palpeggia chiunque - l’attenzione degl’italiani debba concentrarsi sulla nota della Presidenza del Consiglio dei ministri a certificare che l’appellativo da utilizzare per l’abitatrice di Palazzo Chigi è «Il Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, On. Giorgia Meloni»?
Eppure può accadere anche questo. Che il dibattito pubblico si sposti dall’emergenza politico-economica al livello grammaticale, causando ora le ire  delle femministe da Laura Boldrini in giù; ora la reazione dei, per così dire, reazionari; ora l’ironia degli elettori più curiosi. Certo il «signor Presidente» evoca una fluidità gender involontaria. A chiamarla, invece, la «signora Presidente» si fa il gioco della Boldrini. Ad azzardare, con vezzo, «la signora Presidentessa», poi, il richiamo è alla pochade omonima di Maurice Hennequin e Pierre Veber, che ha avuto ben due remake cinematografici di Luciano Salce e Pietro Germi; ma non credo che fosse onestamente nelle intenzioni di Palazzo Chigi.

 

 

 


 Nell’accesissima  querelle linguistica, a un certo punto, è intervenuta Beatrice Venezi che si ama farsi appellare «il direttore d’orchestra« e non «la direttrice d’orchestra», perchè, giustamente, la vera strada dell’emancipazione non è quella di aggiungere ipocrite quote rosa, bensì quella di sottrarre agli uomini anche l’appannaggio degli articoli determinativi. Dopodichè, contro la Meloni s’è fatta strada la virologa Antonella Viola a Otto e mezzo su La7 a sventolare una boutade imbarazzata («Chiamerò Salvini la vicepresidente del Consiglio...»), incorrendo peraltro nel rischio che Salvini le risponda.
Infine è arrivata la Treccani che ha bacchettato l’uso dell’articolo “il” davanti alla Presidente. Ma, subito dopo, a riequilibrare, ecco il templare (o la templare?) dell’italica lingua: l’Accademia delle Crusca. Che, nella figura del suo Presidente Claudio Marazzini, tiene a precisare che  entrambe le forme -“il “ e “la” Presidente- sono, in realtà corrette. La lingua italiana, non vieta di utilizzare il maschile per riferirsi a cariche ricoperte da donne. Perchè non si bada, qui, al sesso ma all’istituzione che è neutra. «Chi preferisce le forme tradizionali maschili ha comunque diritto di farlo», attesta la Crusca. Si tratterebbe, quindi, di una preferenza e non di un errore grammaticale, ha continuato Marazzini concludendo che «chi usa questi femminili accetta un processo storico ormai ben avviato». Mentre la scelta di chi usa il maschile può essere «dettata dall’appartenenza anagrafica a una diversa generazione, o da una cosciente scelta ideologica». E, in questo caso, appunto, trattandosi di una leader politica 45enne, direi che la scelta ideologica è coscientissima. 

 

 

 

 

Cioè: il femminile non è un obbligo, ma un’opzione. Quindi «Il Presidente Meloni» è ok. Il problema si pone per quel «Il signor Presidente» che, al di là della cacofonia, detta così potrebbe figurare su un invito a un gay party al Muccaassassina. E qui, fortunatamente è intervenuta la rettifica del segretario generale di Palazzo Chigi, Carlo Deodato: la richiesta di Meloni era quella di usare solo «Il Presidente del Consiglio dei Ministri», e quindi di non tener conto della prima circolare. Bene, dai
Non abbiamo mai atteso la Legge di bilancio con tanto sollievo...

 

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