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Democrazie malate e assalti alle istituzioni: il filo che unisce i ribelli

Francesco Carella
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Partiamo da una domanda. Qual è il comune denominatore fra l’assalto ai luoghi delle istituzioni democratiche brasiliane ad opera di simpatizzanti dell’ex presidente della Repubblica Bolsonaro, il folle attacco compiuto dai seguaci di Trump ai danni di Capitol Hill qualche anno or sono, la violenta protesta dei “gilet gialli” che hanno paralizzato Parigi per molte settimane- guadagnandosi le simpatie M5S - e l’occupazione della sede della Cgil nell’ottobre 2021 a Roma? Si tratta di manifestazioni che segnalano uno stato di salute malcerto dei sistemi liberal-democratici e delle sue istituzioni rappresentative. Vada sé che le democrazie liberali sono per definizione conflittuali e attraversate quotidianamente da forme di dissenso. L’equilibrio fra contestazione e stabilità - come dimostra la storia dei sistemi democratici – viene garantito dalle procedure elettorali attraverso le quali si produce una solida giuntura fra la legittimità dei governanti e la fiducia espressa ad essi dai governati. Negli ultimi anni, però, un tale meccanismo ha smesso in parte di funzionare a causa dell’affermazione sulla scena pubblica di due dinamiche politico-sociali destinate a cambiare le regole fondamentali della rappresentanza politica e a interrompere “il circuito fiduciario fra élite e popolo”.


La prima riguarda la crescita del potere di veto da parte di un numero consistente di categorie sociali ed economiche sempre attive nel contrastare l’attuazione delle scelte di governo in nome anche dei peggiori interessi particolari, la seconda attiene al cambiamento avvenuto in ogni Paese occidentale e che si esprime attraverso la dilatazione delle funzioni giudiziarie. Si sta realizzando in forma subdola, ma progressiva- scrive lo storico Pierre Rosanvallon una pericolosa transizione dalla «sovranità popolare alla sovranità del popolo-veto e dalla democrazia del confronto alla democrazia dell’imputazione».


In tal modo, il rischio che si corre è che si possa mettere in discussione la stessa sopravvivenza dell’obbligazione politica e il suo corretto funzionamento attraverso la catena “comando-obbedienza”. In tal senso, come contravveleno e fatte le dovute applicazioni, vale la pena di ricordare quanto accaduto nel nostro Paese nel maggio 1915, quando la mobilitazione degli interventisti portò all’assalto di Montecitorio e fu evitato per un soffio il linciaggio di Giovanni Giolitti.

I tumulti di quei giorni furono la fucina del nazional-fascismo postbellico. La verità è che occorre avere sempre piena contezza del fatto che nelle democrazie liberali l’esercizio del potere politico trae forza e autonomia dalla continua fiducia espressa dal cittadino elettore, senza la quale tutto diviene possibile. A tal proposito, Norberto Bobbio già nel 1984 metteva sul chi vive scrivendo - in Il futuro della democrazia- parole nette: «Se mi chiedete se la democrazia abbia un avvenire e quale sia, posto che l’abbia, vi rispondo tranquillamente che non lo so... Ciò che so è che la democrazia non gode di ottima salute, del resto non l’ha mai goduta anche in passato, ma non è sull’orlo del burrone». A distanza di quasi quarant’anni quel burrone sembra più vicino. 

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