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Schlein, Giovanni Orsina: "Non sa parlare all'elettorato di centrodestra"

Fausto Carioti
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La grande opportunità di Giorgia Meloni: con il Pd di Elly Schlein così spostato a sinistra, si spalanca uno spazio al centro che la premier, o suoi alleati, possono occupare. Il grande pericolo: perdere l’iniziativa, impantanarsi, consentire ai suoi avversari di definirla in negativo, come già stanno provando a fare. Il consiglio e l’avvertimento vengono da uno degli studiosi più attenti del centrodestra europeo: Giovanni Orsina, ordinario di Storia Contemporanea e direttore della School of Government della Luiss.

 

 

 

Professor Orsina, dal 25 settembre sono accaduti due fatti nuovi. Uno è l’elezione di Elly Schlein alla guida del Pd. La sua linea è chiara: spostamento del Pd a sinistra, intransigenza verso il centrodestra, priorità all’agenda Lgbtq+ e all’ambientalismo stile Greta Thunberg. È evidente che il suo primo obiettivo è recuperare i voti che dal Pd sono andati al M5S. Può riuscirci?
«Ha già cominciato a farlo, sull’ondata emotiva dell’elezione. Restano, tuttavia, due nodi difficili da sciogliere. Il primo, banale, è che se rubi voti al tuo alleato, il Movimento Cinque stelle, non modifichi la somma della coalizione. Il secondo, strutturale, è che l’elettorato di sinistra-sinistra in Italia corrisponde storicamente a un terzo dei voti: tanti, ma non abbastanza per vincere. Una volta consolidata la propria egemonia su quel terzo, quindi, Schlein dovrà porsi il problema di come allargarsi al di fuori di esso».

Questo significa anche togliere voti al centrodestra. Che al momento, però, è un blocco solido, nel quale, se un partito perde i voti, lo fa a vantaggio di un alleato. Quali speranze ha la Schlein di riuscirci?
«Oggi il centrodestra nel suo complesso non perde voti e Schlein, collocata com’è, non è in grado di parlare a quell’elettorato. Se un domani lei dovesse consolidarsi a sinistra, e il voto a destra cominciasse a sfaldarsi, potrebbe allora provare a spostarsi al centro. Ma stiamo ragionando su una prospettiva temporale di almeno due o tre anni, e le incognite sono legione».

Le restano gli italiani che hanno smesso di votare.
«Questa sarebbe una strategia più credibile. Se Schlein riuscisse a riassorbire l’astensionismo a sinistra, e magari gli elettori delusi, a destra, non andassero a votare, allora quel terzo potrebbe diventare un 40 o 45 per cento di coloro i quali votano effettivamente. Vedremo. Le serviranno comunque tempo e fortuna».

Crede all’ipotesi di una scissione dei moderati e riformisti rimasti nel Pd?
«Per il momento assolutamente no. Schlein è ben lontana dal controllare il partito: saranno mesi duri per lei, per consolidare il proprio potere, e non è affatto detto che ci riesca. Se dovesse riuscirci, allora sì, il problema della scissione potrebbe porsi».

Il terzo polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi è uscito male dalle regionali lombarde e laziali, e il feeling tra i due non è mai stato elevato. Il loro tandem dove può arrivare?
«Non molto lontano, ho l’impressione. Certo, un voto d’opinione come quello del terzo polo non si mobilita per le elezioni locali: il loro cattivo risultato era scontato. Dopodiché, i due non “bucano”. Troppo carattere, troppa storia – per altro, due caratteri e due storie non sempre compatibili. E poi anche qui c’è un dato strutturale: storicamente, il terzo polo in Italia vale il 10 per cento. Quindi, può pesare davvero solo se si verificano due condizioni: o non c’è una maggioranza in parlamento e i suoi voti sono indispensabili per governare, oppure si allea alle elezioni con la destra o con la sinistra. Oggi queste due condizioni mancano. E per il momento non sono all’orizzonte».

 

 

 

Il secondo fatto nuovo è la linea del governo Meloni. La premier si è dimostrata pragmatica e non ideologica, attenta all’equilibrio dei conti pubblici, rispettosa delle prerogative di Sergio Mattarella e degli altri organi costituzionali e collaborativa con la Ue. Dire che la Meloni è passata dal sovranismo al conservatorismo è una semplificazione esagerata?
«Assolutamente no. Sarei ancora più provocatorio: è passata dal sovranismo al moderatismo. Sia chiaro: sono convinto che abbia fatto benissimo, anzi che non avesse alternative. Il governo Meloni nasce in un momento assai delicato, gravato di uno stigma molto negativo (a mio avviso ingiusto, ma tant’è) a livello internazionale. L’interesse nazionale richiedeva prudenza. Anche perché a fare i gradassi sui tavoli internazionali non si ottiene niente, se non di far contente per un quarto d’ora alcune frange marginali dell’elettorato nazionale. Si perde di credibilità, e poi son guai».

Messa così, sembra che i governi nazionali possano solo seguire le ricette scritte da altri.
«Piacciano o non piacciano, i vincoli europei e internazionali sono un dato di fatto. Si può tentare di allentarli e forse anche di modificarli, ma ci vogliono tempo, forza politica e credibilità. Tre risorse che si guadagnano prima di tutto dimostrando di saper accettare quei limiti».

Il grande disegno della Meloni e dei conservatori europei è proprio quello di piazzarsi nella stanza dei bottoni della Ue, entrando nella prossima commissione al posto del Pd e dei socialisti. Dipenderà tutto dai risultati delle elezioni europee che si terranno tra un anno. Dovesse accadere, cosa significherebbe per l’Unione?
«Politicamente, sarebbe una mezza rivoluzione. Anche se per due terzi – popolari e liberali – la nuova maggioranza si sovrapporrebbe a quella attuale. Dopodiché, bisognerebbe comprenderne le ricadute istituzionali. In teoria i conservatori sarebbero per un’Europa “gollista”, più intergovernativa che sovranazionale. Ma all’Italia, su tanti dossier, questa soluzione conviene poco. È forse il più rilevante dei nodi che Meloni non ha ancora sciolto: ideologicamente, chiede che si rafforzi la rete fra le capitali nazionali; ma poi, in concreto, come con le migrazioni o il debito comune, spinge perché ci sia più Bruxelles. Oggi può farlo perché in Europa è all’opposizione. Dovesse andare in maggioranza, sarebbe costretta a sciogliere l’ambiguità».

Fin dove può arrivare questo spostamento al centro della Meloni e di Fdi? Può giungere al punto di farli diventare attraenti per i moderati spiazzati dal radicalismo della Schlein?
«Nel tempo, non vedo perché no. Se il Partito democratico si chiude in permanenza nel terzo di elettorato radicale di cui dicevo e se Renzi e Calenda non decollano, per Meloni – o direttamente o tramite i suoi alleati – si apre uno spazio interessante al centro. Tanto più che a destra della coalizione di governo non ci sono concorrenti. Il vero problema sarebbe non scontentare l’elettorato identitario al punto da spingerlo all’astensione. Ma voglio vederlo un elettore di destra astenersi, se dall’altra parte di Meloni c’è la Schlein di oggi...».

Nessun pericolo all’orizzonte, quindi, per Giorgia Meloni?
«Al contrario: ne vedo almeno tre. Li metto in ordine crescente di gravità. Il primo è che la sua cautela nel costruirsi classe dirigente, che è un pregio, si trasformi in un difetto, facendo prevalere una sorta di sindrome da arroccamento fra i “felici pochi” che provengono tutti dalla stessa storia e la pensano allo stesso modo. È una strada lungo la quale aumentano le paranoie e si allentano i legami con la realtà. È anche una strada che le classi di governo hanno percorso spessissimo: è un riflesso di protezione consustanziale all’esercizio del potere».

Il secondo pericolo?

«È che Meloni perda freschezza. È quasi inevitabile, governando, ma bisogna cercare di perderne il meno possibile. Tanto più che la freschezza è il vantaggio principale di Schlein».

Resta il pericolo più serio.

«È quello di non riuscire a tenere l’iniziativa politica. Dicevo prima che il moderatismo di Meloni è positivo, anzi necessario. Poi, però, devi fare delle cose che ti caratterizzino. Cose di destra. Tre o quattro grandi riforme ambiziose. Devi dettare l’agenda, insomma».

Con il presidenzialismo e la separazione delle carriere dei magistrati?

«Anche con il presidenzialismo, o il semipresidenzialismo alla francese, e con la separazione delle carriere, certo. Altrimenti perdi l’iniziativa, ti impantani, e consenti ai tuoi avversari di definirti in negativo. Tanto più che il rovesciamento degli equilibri europei dopo le elezioni del 2024 è tutt’altro che garantito. Se manchi quel bersaglio, poi che cosa fai? Che cosa sei?». 

 

 

 

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