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Via Rasella, lo storico Cimmino: chi sono state davvero le vittime

Marco Cimmino
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L’attentato di via Rasella, a quanto pare, suscita ancora divisioni e discussioni: certi fenomeni legati alla guerra civile, infatti, sono ancora ritenuti divisivi. Siamo, insomma, lontanissimi da quella storia «sine ira e studio» auspicata da Tacito. Eppure, proprio l’episodio in questione si presterebbe ad un’analisi meno ideologica o, se si preferisce, meno ideologicamente inquinata, data la sua natura complessa e, al tempo stesso, fortemente esemplificativa del clima che aleggiava in quei giorni in Italia. La Resistenza, infatti, dopo l’otto settembre, s’interrogava circa la tattica e la strategia da adottare, con numerosi contrasti, e con opinioni spesso radicalmente opposte all’interno del Cln. Dirò di più: già si delineava quella divergenza strutturale tra gli obbiettivi dei resistenti comunisti e quelli degli antifascisti che di comunismo non ne volevano sentir parlare.

TERRORISMO ECLATANTE - Dunque, a Roma, c’erano i gappisti che miravano al terrorismo eclatante, apparentemente incuranti delle conseguenze (peraltro giustificate dal diritto internazionale) dei loro attentati: anzi, lo scatenare l’inevitabile rappresaglia veniva, piuttosto cinicamente, giudicato uno strumento poderoso di propaganda antitedesca. Ma i gappisti avevano, probabilmente, anche un secondo obbiettivo, se vogliamo assai più sotterraneo, in quanto assai più imbarazzante. La sicura rappresaglia avrebbe colpito, presumibilmente, ostaggi già nelle mani della polizia fascista: carcerati antifascisti, ebrei, renitenti e così via. A Regina Coeli, la maggioranza dei prigionieri politici era composta da resistenti non comunisti: il loro sacrificio avrebbe eliminato, per così dire, parte della concorrenza. So che pare un ragionamento orribile, tuttavia, in altri casi le fortissime rivalità all’interno della Resistenza produssero simili aberrazioni: basti Malga Porzus per tutte.

 

 

Vada sé che la decisione di compiere un attentato di quelle proporzioni trovò il Cln affatto diviso: non tutti condividevano questa strategia insurrezionale. D’altronde, erano proprio stati gli attentati gappisti a imporre alla guerra civile una brusca accelerazione, rispetto agli intenti iniziali, che volevano, da entrambe le parti, evitare lo spargimento di sangue fraterno: tacere su questo aspetto della Resistenza significa darne una lettura assai poco storica.

Dunque, i comunisti dei Gap agirono autonomamente, nonostante l’azione fosse sconsigliata, quando non avversata, da molti: l’impressione, dunque, è che l’iniziativa rispondesse ad una strategia concordata a livello partitico ma non condivisa dall’intero Cln.

ZONA GRIGIA - Ma veniamo alle vittime dell’attentato: trascurando i danni collaterali, i trentatre morti di via Rasella furono immediatamente ascritti al novero dei nazisti, quando non addirittura delle SS.

 

 

È, d’altra parte, un equivoco abbastanza diffuso quello di rubricare come nazisti tutti i militari tedeschi, tra il 1939 e il 1945, non tenendo conto di quella che è, in tutti i fenomeni storici di questo tipo, la maggioritaria “zona grigia”. Non tutti i soldati tedeschi erano dei fanatici nazisti: esistevano anche i militari di leva puri e semplici e, nel caso dei morti di via Rasella, perfino dei tedeschi che erano lì proprio per il loro scarsissimo nazismo.

Tanto per cominciare, i caduti del “Bozen” erano, tecnicamente, italiani, divenuti tedeschi in virtù dell’annessione dell’Alto Adige all’Alpenvorland. E non erano soldati in senso stretto né SS: erano reclute di una sorta di polizia ausiliaria, l’Ordnungspolizei. Perdi più, questi Tirolesi erano prevalentemente cattolici praticanti, assai tiepidi verso il nazismo e molto poco bellicosi: subivano scherzi e vessazioni dai veri soldati tedeschi e venivano frequentemente insultati per la loro scarsa fede nel Capo e perla loro poca marzialità. Erano, insomma, qualcosa a metà tra un reparto di punizione e un gruppo male assortito di militari di second’ordine. Non erano musicisti e non erano nemmeno antinazisti in senso stretto, ma, certamente, erano tutt’altro che un reparto d’élite fiero del proprio nazionalsocialismo e che marciava impettito: erano dei poveracci, reclutati in malo modo a Bressanone o a Brunico e mandati in territorio ostile per far loro scontare il proprio spirito religioso. Carnefici e vittime, in un gioco degli specchi che è difficile decifrare fino in fondo: il bene e il male, spesso, nella storia, giocano a rimpiattino. E non sempre i buoni sono assolutamente buoni e i cattivi assolutamente cattivi.

Se c’è una cosa che si impara presto, nel nostro mestiere, è che non esiste un male assoluto. Esistono molteplici risvolti di una medesima memoria, difficilissimi da dipanare. Per questo, talvolta, sarebbe meglio evitare di proporre alla gente verità formidabili, che non resistono all’urto della realtà. In certi casi, meglio tacere.
*Docente di storia

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