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Sinistra, l'indulgenza degli intellettuali e "i compagni che sbagliano"

Francesco Carella
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L’ennesimo schiaffo della magistratura francese inferto all’Italia negando l’estradizione di dieci terroristi - condannati dalle Corti del nostro Paese secondo rigorose regole dello Stato di diritto - fuggiti a Parigi per evitare il carcere, può essere l’occasione, al di là della cronaca, per riflettere su due aspetti centrali del nostro lungo ’68. L’uno riguarda una mobilitazione che ben presto trasloca dai luoghi simbolici di una generica conflittualità giovanile verso una più rigida connotazione ideologica di stampo marxista. Infatti, nel giro di pochi mesi - dopo quel 1° marzo 1968, giorno in cui gli studenti scoprirono «l’efficacia della violenza quale strumento di lotta politica» ingaggiando a Valle Giulia a Roma una battaglia feroce con le forze di polizia - si passò dal lancio sistematico delle bottiglie molotov nelle manifestazioni di piazza all’organizzazione di un vero e proprio partito armato.

 

 

La “peggio gioventù” impugnò le armi e incominciò a seminare morte nelle strade italiane. Il secondo aspetto di quel periodo è legato all’atteggiamento antidemocratico della maggior parte degli intellettuali, i quali non solo flirtarono con i protagonisti delle violenze, ma dimostrarono anche di essere culturalmente poco attrezzati nel comprendere che il Paese reale proprio in quei decenni stava portando a compimento una modernizzazione politica, civile ed economica che lo collocherà, di lì a poco, fra le maggiori potenze industriali del mondo. «Solo l’Italia - scrive lo storico Vittorio Vidotto - conobbe un’area così ampia d’indulgenza per forme di violenza sovversiva e un così lungo consenso, o tolleranza di fatto, per il terrorismo di sinistra. Agli occhi di molti militanti i terroristi commettevano errori teorici e di strategia, ma non erano percepiti come avversari né condannati per la minaccia portata alla convivenza politica della collettività. Erano solo “compagni che sbagliano”». D’altro canto, c’è da rabbrividire a scorrere l’elenco di coloro che nel 1971, all’indomani della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli precipitato da una finestra della questura di Milano il 15 dicembre 1969, firmarono un appello in cui senza qualsivoglia riscontro fattuale veniva indicato come responsabile di quella morte Luigi Calabresi.

 

 

Il commissario fu ucciso sotto la sua abitazione il 17 maggio 1972 per mano di un commando di Lotta Continua. In calce a quel documento si potevano leggere i nomi della “meglio cultura italiana” nella cui cifra politica lo Stato era un nemico da combattere con ogni mezzo e non un’entità democratica nella quale identificarsi in modo unitario. Tutto ciò, altro non era che il risultato finale di ciò che il filosofo liberale Nicola Matteucci chiamava “dittatura culturale marxista” e che rappresentò il brodo di coltura nel quale crebbe e si moltiplicò il virus del terrorismo in Italia. Del resto, il punto più alto di tale aberrazione venne raggiunto nei giorni del sequestro Moro, quando un gruppo di “funzionari del pensiero” lanciò una parola d’ordine inquietante, «né con lo Stato né con le Br». Uno slogan che riportava alla memoria l’antinazionale «né aderire né sabotare», leitmotiv dei socialisti durante la Prima guerra mondiale. Tanto per ricordare quanta distanza vi fosse già all’epoca fra l’universo della sinistra e le ragioni del Paese. A giudicare dall’ambiguità, quando non di vera euforia, con cui è stata accolta la recente decisione della magistratura parigina presso alcuni ambienti politico-culturali, la sensazione è che l’attesa sarà ancora molto lunga prima che si possa aprire in Italia il libro delle responsabilità morali dei “cattivi maestri”.

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