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Matteo Salvini, la citofonata? "Erano quelli veri": clamoroso ribaltone

Fabio Rubini
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Tu chiamala se vuoi... questione di karma. Ve la ricordate la citofonata di Matteo Salvini al quartiere Pilastro di Bologna a pochi giorni dalle regionali? Quella del «Scusi, qualcuno dice che lei e suo figlio spacciate...». All’epoca questa scena suscitò infinite polemiche e anche una denuncia per diffamazione contro lo stesso leader della Lega. Bene, due anni e mezzo dopo la situazione si è completamente ribaltata. Se il 3 marzo 2022 il Gip del tribunale di Bologna ha archiviato il fascicolo a carico di Salvini, ieri lo stesso tribunale ha concluso, pronunciando 21 condanne, il processo di primo grado all’organizzazione che gestiva lo spaccio di droga in zona Pilastro. Tra i protagonisti, guarda caso, c’è anche la famiglia di tunisini alla quale Salvini aveva citofonato. In particolare il Gup, Sandro Pecorella ha deciso di comminare due anni e sei mesi e venti giorni al capofamiglia, un anno alla moglie, quattro anni sei mesi e venti giorni a uno dei figli (l’altro era minorenne all’epoca dei fatti) e tre mesi e dieci giorni per una parente.

Insomma a voler guardare, secondo le condanne di ieri, che andranno confermate anche negli altri due gradi di giudizio, Salvini nel chiedere conto al citofono per la condotta di padre e figlio, era stato financo ottimista, visto che a delinquere, secondo il Gup di Bologna, è stata più o meno tutta la famiglia, parenti compresi. A rendere ancora più interessante la questione c’è il fatto che le condanne di primo grado sono arrivate alla fine di un’indagine - quella svolta dai pm Roberto Ceroni e Marco Imperato - partita dall’omicidio di Nicola Rinaldi, freddato nell’agosto 2019 in via Frati a Bologna. Secondo l’accusa, l’associazione protagonista dei fatti ritenuti illeciti era composta da sette persone più un minore: pianificavano gli acquisti di cocaina e hascisc, cercavano nuovi fornitori e i locali dove stoccare la droga che poi rivendevano sulla piazza locale.

QUANTA INDIGNAZIONE
Eppure in quel freddo giorno di fine gennaio 2020, quando il Centrodestra accarezzò fino all’ultimo il sogno di strappare la rossa Emilia Romagna al Centrosinistra per la prima volta nella storia, furono in tanti ad indignarsi per l’intemerata di Salvini. Già in diretta alcuni esponenti dei centri sociali cittadini avevano contestato il leader della Lega e nelle ore seguenti, le manifestazioni di condanna si erano susseguite a ritmo incalzante. Stefano Bonaccini, governatore uscente della Regione, tuonò: «I campanelli Salvini vada a suonarli a casa sua». Giuseppe Conte parlò di «comportamento indegno» del leader della Lega e di «pratiche oscurantiste del passato: è un dagli all’untore che non possiamo accettare». Salvo poi scoprire che l’untore c’era veramente.

Nei giorni seguenti si affacciò alle cronache anche una teoria del complotto - che in Italia non manca mai -, secondo la quale era stata una “talpa” all’interno delle forze dell’ordine a fare la “soffiata” a Salvini. Il deputato del Pd non rieletto - Andrea De Maria, presentò addirittura un’interrogazione parlamentare sulla possibile fuga di notizie. Elly Schlein, all’epoca neo vice di Bonaccini nella giunta regionale, disse che «Con quel gesto Salvini ha creato tensioni in quel quartiere». E ancora un giudice arrivò ad accusare Salvini di aver rallentato le indagini su quel giro di spaccio. L’attuale vice premier, che ieri non ha commentato la notizia della condanna di quella stessa famiglia, all’epoca disse serafico: «Rifarei tutto, anche il citofono, il radiotelefono, il grammofono». E a giudicare dalle sentenze di ieri, proprio tutti i torti non ce li aveva.

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