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Giorgia Meloni, Yves Mény: "L'asse anti-socialisti dipende da lei"

Francesco Carella
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«Se l’Unione europea continua a sottovalutare il sentimento di estraneità dei cittadini nei confronti dell’élite decidente rischia la perdita di legittimità». Parole nette quelle che pronuncia Yves Mény, scienziato politico, studioso del populismo e già direttore dell’Istituto di cultura europeo. Dice il professore: «Si tratta di uno scollamento che non è specifico dell’Europa. Si ritrova in molti Paesi dove i luoghi delle decisioni politiche sembrano non tenere nel dovuto conto l’orientamento della pubblica opinione. Accade negli Stati dove prevale il centralismo (si pensi all’odio della provincia francese verso Parigi) ma anche nei Paesi a struttura federale. Infatti, sia in Germania che negli Stati Uniti è crescente l’insofferenza nei confronti di Berlino e di Washington. Nel caso dell’Unione, la diffidenza nei confronti di Bruxelles è assai più accentuata a causa di alcuni fattori che vanno dalla scarsa conoscenza della macchina europea alla natura tecnicamente complessa delle misure adottate sia dal Parlamento che dalla Commissione».

Molti analisti sostengono che alla base di tutto ciò vi sia un vizio d’origine. Sia i padri fondatori che i loro successori hanno agito nella convinzione che l’integrazione economica fosse la strada più adatta per promuovere l’integrazione politica. Sbagliando.
«È stato trascurato un elemento cruciale ovvero il fattore tempo. La storia insegna che l’integrazione economica può avvenire velocemente anche perché coloro che la rifiutano vengono eliminati senza alcuna pietà dalla logica di mercato. L’integrazione politica è tutt’altra cosa. Essa è molto più lenta in ragione del fatto che incrocia nel suo cammino intere comunità pronte a ribellarsi in nome delle tradizioni e delle culture nazionali. Le regole di mercato possono essere cambiate in men che non si dica, male identità profonde di ciascun Paese sono destinate a sopravvivere a lungo. Si pensi al caso della Catalogna o della Scozia che insistono nel ritrovare l’indipendenza perduta malgrado un’integrazione totale nei sistemi economici nazionali».

 



 

Alla luce di tali considerazioni, possiamo leggere il fenomeno del sovranismo come una forma di ribellione nei confronti di questo stato di cose?
«Intanto, è giusto ricordare che storicamente il sovranismo è una teoria elaborata da alcuni giuristi del Rinascimento (come Jean Bodin) per legittimare il desiderio d’indipendenza degli Stati nazionali all’epoca in formazione. Nella realtà, ogni governo è sovranista perché è stato eletto per difendere gli interessi del proprio Paese. Ciò di cui occorre avere contezza è che non esiste sovranità assoluta, perché tutti i Paesi sono dipendenti fra loro. La Gran Bretagna dipende dagli altri per il cibo, la Francia o l’Italia per le fonti d’energia. La Cina non può fare a meno degli Stati Uniti per l’esportazione delle sue merci, mentre questi ultimi hanno bisogno della Cina per piazzare i propri buoni del Tesoro necessari per finanziare il loro deficit. Per non dire della difesa dell’Europa affidata di fatto agli Stati Uniti. Il dibattitto sul sovranismo che si sta sviluppando in questi anni, tra molte polemiche soprattutto da parte delle sinistre, è di natura strumentale e ideologica. La domanda che dobbiamo porci pensando al futuro dell’Unione è la seguente: quanta dipendenza ciascuna nazione può permettersi di accettare e, soprattutto, in quali settori e a quali condizioni? Non è facile trovare la risposta giusta».

Fra meno di un anno si andrà al voto per eleggere il nuovo Europarlamento. Non si esclude che possano crearsi le condizioni per uno storico cambio di maggioranza, mandando il gruppo socialista per la prima volta all’opposizione. Qual è la sua opinione ?
«Penso che la tentazione di sostituire con un’alleanza fra popolari e conservatori l’attuale maggioranza di centrosinistra sia molto forte oltreché comprensibile. I Popolari non sono stati in grado d’impedire la crescita di movimenti e partiti che si collocano alla loro destra e che raccolgono il disagio popolare crescente di cui stiamo parlando. Il discorso riguarda ancora di più la sinistra il cui declino è assai più evidente. Il problema è che, a meno di un vero e proprio terremoto elettorale, i numeri per un ribaltone probabilmente non ci saranno. Perché ci siano occorre coinvolgere partiti quali Vox, AfD, Rassemblement National. Sono convinto che Marie Le Pen sia poco interessata a un’operazione di questo tipo. Le Pen punta a conquistare l’Eliseo anche criticando fortemente l’Unione. Fare parte di una maggioranza indebolirebbe la sua campagna elettorale del 2027. Peraltro, io non sottovaluterei ciò che è accaduto recentemente in Spagna, là dove il timore di una forte affermazione della destra di Vox ha portato a un’inaspettata mobilitazione dell’elettorato moderato».

 



 

Che cosa pensa che debba fare Giorgia Meloni ?
«Meloni ha confermato ancora una volta che i due punti saldi della politica estera italiana sono l’adesione e il sostegno all’Ue e alla Nato. Due scelte che finora non ho visto fare agli altri gruppi di destra. L’alternativa potrebbe essere quella di allargare l’attuale coalizione al partito del premier italiano. In tal caso, si potrebbe aprire un processo d’integrazione con il gruppo dei Popolari. So che non è l’obiettivo a cui oggi punta Giorgia Meloni, ma sarebbe comunque una rottura rispetto all’attuale situazione di stallo».

Lei sostiene che uno dei temi su cui intervenire con una certa urgenza, per fare ripartire l’Unione, riguarda il sistema di voto nel consesso europeo.
«Si tratta di scegliere fra unanimità o maggioranza qualificata. È una questione da risolvere in fretta, perché quando l’UE avrà incorporato gli ultimi Stati dell’ex Jugoslavia e si troverà alle porte l’Ucraina, la Moldavia e la Georgia, ci saranno 32 o 35 Stati membri. Se ciascuno potrà disporre del potere di veto sarà la paralisi. La regola di maggioranza nelle democrazie è stata inventata per consentire al sistema di funzionare. L’Ue a 35 o va in questa direzione o è destinata a morire».

Resta l’ipotesi di un’Europa a due velocità.
«Sarebbe troppo complicato, macchinoso e frustante, ma potrebbe diventare l’ultima ratio in caso di stallo».

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