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Gianni Alemanno, il destro della sinistra: attacca Meloni? Sbaglia bersaglio

Fausto Carioti
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Dopo anni di sconfitte e digiuni politici, Gianni Alemanno può dire di aver vinto qualcosa. È il candidato di destra, o forse della ex destra (ci tiene a far sapere che lui ormai è oltre certe categorie), che più piace alla sinistra. Per uno rimasto senza nulla da perdere, sono soddisfazioni. Hanno già iniziato a corteggiarlo e da qui al 9 giugno, quando gli italiani andranno ai seggi per rinnovare il parlamento europeo, il suo carnet di ballo sarà riempito dalle testate dell’opposizione. Il motivo è evidente: per quanto poco possa prendere quel giorno, sarà a Giorgia Meloni che lo sfilerà, o almeno così sperano a sinistra. Que viva el compañero Juan Alemaño, allora.

SOLITO COPIONE

Aggiornato ai tempi, è lo stesso gioco che fecero con Gianfranco Fini contro Silvio Berlusconi. Lo gonfi più che puoi, sperando che a destra qualcuno ci caschi. E poi, quando non ti serve più, lo rimetti dove lo avevi preso e magari ricominci pure a dargli del fascista. Alemanno, che è tante cose, ma non uno sprovveduto, lo sa e gli va bene così. Ieri lo ha ospitato il settimanale The Post Internazionale, in una lunga intervista a Luca Telese. La notizia, se vogliamo chiamarla così, è all’ultima riga: Alemanno farà quello che già si sapeva, cioè un partito anti-meloniano: «Se c’è, come credo, una aggregazione adeguata, lo faremo presto».

Auguri a lui e ai compagni camerati che lo accompagneranno nell’ardimentosa impresa, perché l’ingegner Alemanno non ne azzecca una da decenni. Da ministro delle Politiche agricole del secondo e terzo governo Berlusconi si fece notare per l’unità d’intenti col suo predecessore Alfonso Pecoraro Scanio. L’ultrà verde, gretino ante litteram, lo guardava lavorare e lo benediceva: «Apprezzo la volontà del ministro Alemanno di garantire la continuità nella scelta ogm-free». E lo stesso sull’energia nucleare da bandire per sempre, sulle multinazionali sporche e cattive e tutto il resto: nel parlamento della quattordicesima legislatura, “trova la differenza tra i due” era uno dei passatempo in voga.

 

 

 

Toccò il cielo il 28 aprile del 2008, quando vinse il ballottaggio delle comunali romane con Francesco Rutelli, una minestra riscaldata che nemmeno la sinistra capitolina era disposta a mandare giù. Fu anche l’inizio della discesa. Roma è ingovernabile per chiunque e per l’alpinista della domenica Alemanno, che non si allena e fa incazzare i compagni di cordata, si rivelò subito un Everest da scalare. Di lui si ricorda che lasciò la città impreparata alla nevicata del febbraio del 2012, malgrado la Protezione civile lo avesse avvertito, e poco altro. Un anno dopo perse malamente (64 a 36) il ballottaggio contro lo sprovveduto Ignazio Marino. Nella capitale era iniziata la lunga stagione dei sindaci da incubo.

Lascia il Pdl e nel 2014 si candida alle Europee con Fratelli d’Italia, nella circoscrizione meridionale. Fdi va male e non supe- ra la soglia nazionale del 4%, lui non riesce ad arrivare a 45mila voti, distanziatissimo dalla capolista Giorgia Meloni. Vagabonda un po’, rientra in Fdi, che prima delle elezioni del 2022 lascia di nuovo per appoggiare Italexit, si mette alla testa di una rete di movimentini sovranisti e ora strizza l’occhio al generale Roberto Vannacci, sperando di intrupparlo.

Non è mai stato un trascinatore di folle e l’esperienza in Campidoglio gli è stata fatale come amministratore. Anche chi gli vuole bene lamenta la sua totale mancanza di empatia: Alemanno non sorride mai, gira l’Italia accompagnato da una faccia contrita, che per un politico in cerca di consensi è il peggiore dei manifesti. La comunità di militanti che lo ha affiancato per anni si è dissolta, gli resta cucita addosso la frase che il 2 novembre del 2018, anniversario della scomparsa di Pino Rauti, gli dedicò la figlia Isabella, che di Gianni è l’ex moglie e con la quale si era pure lasciato bene: «Non sei degno di ricordare mio padre».

 

 

 

CON RIZZO E CON LA CINA

Ora, per la gioia della sinistra, si fa intervistare per dire che la premier è diventata una conservatrice di stampo occidentale («se mi dici “conservatore” io mi offendo»), cioè una leader di quella destra che vince e governa in tante democrazie: a differenza della sua, che non tocca palla. Accusa la Meloni di essere simile a Margaret Thatcher (che è stata la politica più nazionalista e identitaria dell’ultimo mezzo secolo, ma questo forse lui lo ignora) e troppo distante dalla sinistra, tanto da abolire il reddito di cittadinanza. Tutte medaglie, per la presidente del consiglio. Leggi Alemanno e potresti scambiarlo col comunista Marco Rizzo, assieme al quale organizza convegni per dire che l’Italia non deve abbandonare gli accordi siglati dal governo Conte col regime di Pechino: l’antiamericanismo e lo statalismo sono collanti potenti. Sbandiera il sondaggio che assegna al suo partitino, ennesima creatura pacifista, uno «spazio potenziale» del 10%. Occhio all’aggettivo, il trucco è lì: dieci punti «potenziali» non si negano a nessuno, sulla differenza tra il virtuale e la cruda realtà si è schiantata gente molto più corazzata e sorridente di lui. 

 

 

 

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