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Giorgio Napolitano, perché il funerale è sembrato una recita

Fausto Carioti
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Il funerale cattolico ha una liturgia codificata nei millenni e il suo scopo è dare l’addio al defunto, cioè consegnarlo “a Dio”. C’è l’immortalità dell’anima, la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà, comanda la speranza di un futuro in Cristo. Il rito laico non può avere nulla di questo: guarda al passato e il copione va inventato ogni volta. E la cerimonia funebre con cui è stato salutato Giorgio Napolitano, la prima nella storia di Montecitorio, è stata pensata come una grande rappresentazione teatrale, in cui ognuno degli oratori ha un ruolo diverso.

Quello del figlio Giulio e dei nipoti Sofia e Simone (studi in Svizzera e in Inghilterra fa sapere Sofia, a proposito di evoluzione borghese della sinistra) è ovvio. Anna Finocchiaro incarna il Pci nel quale lui e lei hanno militato per decenni («la storia lunga, complessa e contraddittoria di quel partito che è stato il mio», dice poco prima di cedere alla commozione). Davanti a lei, in platea, l’album di famiglia di Botteghe Oscure: Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Achille Occhetto, Giuliano Ferrara, Piero Fassino e cento altri.

 

 

Paolo Gentiloni rappresenta la Ue, serve a ricordare che per il senatore defunto «l’Europa è stata sempre la via maestra». Il compito di monsignor Gianfranco Ravasi è assicurare che il non credente Napolitano era «attento al discorso spirituale», tanto da meritarsi una citazione del profeta Daniele: i saggi come lui «risplenderanno come le stelle per sempre», che è quanto di più simile alla beatificazione possa fare un cardinale. Giuliano Amato, cui spetta l’orazione finale, è la voce delle istituzioni: Quirinale a parte, le ha girate tutte. Ricorda di quando Napolitano sollevò conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale – vincendolo – contro i pm di Palermo, che avevano acquisito alcune sue telefonate con Nicola Macino senza distruggerle subito. «Il presidente della repubblica deve poter contare sulla riservatezza assoluta delle sue comunicazioni. Una lezione di diritto e di vita costituzionale partita da lui».

Sceneggiatura e interpreti obbligati, insomma. Con un’eccezione: Gianni Letta. L’uomo che per 36 anni ha vissuto accanto a Silvio Berlusconi si prende la parte più difficile: provare a ricucire lo strappo tra Napolitano e il Cavaliere, o meglio tra Napolitano e il popolo di centrodestra. Una ferita aperta dodici anni fa. Un giornalista super partes come Alan Friedman nei suoi libri la racconta così: «Il piano del presidente era chiaro, senza ombre: Napolitano stava immaginando e preparando la sostituzione del primo ministro in carica almeno quattro e probabilmente cinque mesi prima della nomina formale di Mario Monti».

È per smentire la tesi della defenestrazione del Cavaliere preparata da Napolitano che Gianni Letta prende la parola. Inizia dicendo che la scomparsa del presidente emerito «è una perdita di tutti», «un lutto repubblicano». E da lì, con eloquio felpato, arriva al cuore della vicenda: «Quello che non è mai venuto meno in Giorgio Napolitano è stato l’altissimo senso delle istituzioni che ha sempre guidato il suo impegno politico anche nelle prove per lui forse più difficili, come durante i governi Berlusconi».

 

 

PAROLA DI TESTIMONE - Per mettere assieme i due opposti, che per lui ovviamente opposti non sono, Letta rievoca il discorso che Napolitano fece in quell’aula nel 1994, durante il dibattito sulla fiducia del primo governo Berlusconi, quando a nome del Pds disse che «le istituzioni vengono prima delle appartenenze politiche» e che il confronto tra maggioranza e opposizione deve essere «non distruttivo». Parole, ricorda, che indussero Berlusconi «ad alzarsi da questi banchi e a scendere in aula per stringergli la mano».

Un rispetto reciproco che secondo lui non sarebbe mai cessato, nemmeno dal 2008 al 2011, quando il mandato di Napolitano al Quirinale si sovrappose con quello di Berlusconi a palazzo Chigi. Riconosce che «non mancarono i momenti di tensione, anche forti, e neppure le polemiche». Però garantisce che «da tutte e due le parti non vennero mai meno la volontà e la forza di mantenere il rapporto nei binari della correttezza istituzionale». È il punto più controverso della storia recente d’Italia e della carriera politica di Napolitano. Letta lo sa, e sa pure che in quell’aula c’è chi non la pensa come lui. Quindi si ferma su questo punto, assicura di parlare «in coscienza», in quanto «personalmente testimone» di quei fatti. Riconosce che Napolitano esercitò i suoi poteri «in modo forse diverso da alcuni dei suoi predecessori». Ma lo fece, insiste, «senza mai venir meno ad un rigoroso rispetto delle forme e dei limiti fissati dalla Costituzione». Chiude il suo discorso con parole che profumano d’incenso, più di quelle di monsignor Ravasi: «Dopo Berlusconi, Napolitano, a tre mesi uno dall’altro. Mi piace immaginare che, incontrandosi lassù, possano dirsi quello che forse non si dissero quaggiù. E placata ogni polemica possano chiarirsi e ritrovarsi nella luce». Amen.

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