Daniele Capezzone svela cosa c'è dietro al crollo di Pd e 5s
La notizia è a suo modo clamorosa: nel momento più delicato per il governo (due guerre, qualche incertezza politica, un po’ di fibrillazione tra gli alleati, un andamento dell’economia migliore rispetto ai partner europei ma certamente non entusiasmante), le opposizioni non solo non guadagnano terreno ma addirittura arretrano. A certificare la pessima congiuntura per le minoranze è la supermedia YouTrend/Agi, una media ponderata dei sondaggi Eumetra-Quorum-Swg-Tecnè relativi all’arco temporale 23 novembre -6 dicembre. Il risultato è inequivocabile: a fronte di una prestazione molto buona dei partiti di centrodestra (Fdi 28.7%, Lega 9.3%, Forza Italia 7.5%, con la coalizione di governo che, aggiunte le forze minori, si colloca su un ragguardevole 46.7%), i partiti di opposizione vanno decisamente male. Il Pd tocca l’ennesimo record negativo della gestione di Elly Schlein, ben sotto la soglia psicologica del 20% (19.2%), ma pure i Cinquestelle perdono circa un punto in due settimane, attestandosi al 15.6%.
E l’arretramento generale delle minoranze è tale che, perfino immaginando una somma (politicamente complicatissima e carica di contraddizioni esplosive) tra tutto il centrosinistra (25.2%) e i grillini, si giungerebbe al 40.8%, quasi 6 punti sotto la coalizione avversaria. I dati politici che emergono sono due. Da un lato, gli elettori percepiscono le minoranze come un’accozzaglia, e non come una credibile alternativa di governo. Dall’altro, pare evidente il mancato funzionamento del format politico e mediatico caro alle opposizioni: quello dell’apocalisse imminente ai danni del (o causata dal) governo di centrodestra.
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Lo schema lo conoscete, e starei quasi per dire che il casus belli è irrilevante, e infatti cambia ogni giorno: può essere il rischio-fascismo, l’antieuropeismo presunto, una riforma istituzionale annunciata, una nuova normativa in materia di giustizia, una misura economica, o anche una semplice dichiarazione di Giorgia Meloni o di un altro esponente governativo. In questi ultimi dieci giorni, a sinistra si sono giocati pure il jolly del patriarcato, tentando di scaricare addosso alle “destre” (o alla “destra-destra”, secondo l’ultima definizione di moda) perfino la responsabilità di un atroce fatto di cronaca.
Come si vede, tutto fa brodo: l’importante è presentare il “caso” a tinte fortissime, bollando ogni respiro della destra come una provocazione insopportabile, un’offesa alla Costituzione, uno sfregio alla civiltà, una minaccia esistenziale, e via alzando l’asticella dello sdegno. Ecco, tutta questa paccottiglia non funziona, e viene anzi sistematicamente respinta dagli elettori. In altre parole, questo “al lupo al lupo” gridato costantemente a volume altissimo da sinistra non sembra spaventare il popolo di centrodestra, né sta incoraggiando l’altra mezza Italia a mobilitarsi per il Pd e compagni. Servirebbe forse – ma è cosa un po’ più difficile rispetto alle urla – una semina intelligente e costruttiva sul lato dell’opposizione. Esercizio faticoso, incerto, di lungo periodo: del quale però non si avverte alcun segnale.
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Non solo. Semmai, ciò che si percepisce è una clamorosa incertezza strategica di Elly Schlein, la quale – piaccia o no – era stata eletta alle primarie in nome di una grande aspettativa di cambiamento. Di più: ci era stato spiegato che la sua vittoria derivava proprio dal meccanismo delle primarie aperte, da un coinvolgimento più largo rispetto alla cerchia dei militanti di partito (che infatti avevano preferito il suo rivale Stefano Bonaccini). E invece che sta facendo oggi la Schlein? Per un verso sta mandando in soffitta il meccanismo delle primarie che pure l’aveva premiata: infatti, sia per la scelta della candidatura per il Comune di Firenze sia in vista delle quattro elezioni regionali di primavera, quel metodo è stato accantonato.
Non basta ancora? Nel tentativo di organizzare una “controprogrammazione” rispetto adAtreju, la festa invernale di Fdi che si terrà dal 14 al 17 dicembre, la Schlein ha fatto sapere che il 15 e il 16 ci sarà una “due giorni” del Pd. E chi saranno i protagonisti? Tenetevi forte: Enrico Letta, Paolo Gentiloni e Romano Prodi. Cioè – con rispetto parlando – proprio i “dinosauri” rispetto ai quali la vittoria della Schlein avrebbe dovuto rappresentare, secondo la martellante narrazione che abbiamo ascoltato per mesi, uno spettacolare voltapagina. Morale: spariscono le primarie, tornano i grandi vecchi, si riaffacciano le correnti. È come se la Schlein stesse implicitamente ammettendo la propria debolezza, la scarsa consistenza della nuova stagione che avrebbe dovuto incarnare, e si fosse dunque adattata a riproporre il solito menu del Pd, a sua volta – però – ripetutamente bocciato dagli elettori.
Sta tutta qui l’equazione politica che la Schlein non è riuscita a risolvere. In termini di comunicazione, non è andata oltre una ripetitiva e lagnosa invettiva contro la Meloni. Risultato? Sondaggi in retromarcia. In termini di rinnovamento del partito, l’operazione non è riuscita, e anzi lascia spazio alla riproposizione dei vecchi schemi, dei vecchi riti e delle vecchie facce. Unendo le tessere del puzzle, ciò che viene fuori ha i contorni di una pesante sconfitta politica.
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