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Giuseppe Conte ora vuole Volodymyr Zelensky con la pochette

Giovanni Sallusti
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Ci sono scene iconiche, e perfino scenette sguaiate, che spiegano più di un’intera biblioteca di politologia. Quella di cui si parla qui dura una ventina di secondi, è un frammento da DiMartedì di Giovanni Floris. Parla il "punto di riferimento fortissimo di tutte le forze progressiste", come già chiarì Nicola Zingaretti, quello con cui Elly non vede l’ora di dedicarsi alla "costruzione del campo dell’alternativa", quello con cui anche secondo Calenda ormai "è impossibile non parlare", colui che ha in mano le chiavi dell’ammucchiatissima (definizione più onesta di “campo largo” coniata da Libero), insomma Giuseppe Conte da Volturara Appula. L’Avvocato del Popolo la sa lunga, conosce "il modo migliore per aiutare Zelensky e l’Ucraina".

Ha reperito scorte di armamenti che languivano nei sotterranei del ministero della Difesa, è al corrente di sistemi Nato di ultima generazione, ha in mente un’azione risolutiva per piegare l’economia russa? Nossignore, tutto questo sarebbe retorica “bellicista”, per parlare col linguaggio dell’house organ contiano, il Fatto Quotidiano. Colui che durante il lockdown rese seriamente gli “affetti stabili” materia legislativa è ben oltre, custodisce la genialata per mettere fine alla mattanza, sotto forma di consegna al presidente ucraino. Bisogna "anzitutto dirgli che qualche volta può anche mettere abiti civili, nonostante il suo sia un paese in guerra, perché presentarsi sempre, a qualunque summit, con abiti militari secondo me dà anche un’immagine...". La sospensione è voluta, potete riempirla come volete: volgare, maleducata, scorretta, tesa magari ad insinuare che nel Paese di chi si addobba così si combatta quotidianamente contro un invasore straniero e massacratore ("nessuno ci dica che Vlamidir Putin non vuole la pace!", tuonava Conte prima delle ultime elezioni politiche).

 

 

Potrebbe fare la guerra con un po’ più di tatto, questo Zelensky, potrebbe avere il bon ton di soprassedere sull’ecatombe quotidiana di suoi compatrioti e sull’immonda tratta di bambini ucraini, potrebbe farsi bombardare e magari morire in pochette e gessato, pacatamente, senza disturbare, soprattutto durante quei “summit” internazionali in cui servono deliziose tartine al caviale (che probabilmente è uno dei motivi principali per cui Conte non vede l’ora di tornare a Palazzo Chigi). Se lo zoticone di Kiev non ci arriva, chieda a Rocco Casalino, Giuseppi immaginiamo possa agevolare il contatto. Ma ormai è un veterano, ormai procede in proprio anche nell’analisi semiologica del look, e passa subito dalla tuta indossata al messaggio sbagliato: "Cioè noi dobbiamo lavorare per un negoziato di pace!". E la mimetica no, signora mia, è l’abc, passi la barba non sempre rasata a dovere e passino perfino quelle disgustose occhiaie, come se davvero fosse dura resistere da due anni contro il secondo esercito del mondo, ma la mimetica è troppo.

 

 

Detto che non sembra nemmeno firmata, ma soprattutto allude addirittura all’intenzione di difendersi con metodi non gandhiani, scomoda l’ipotesi di sparare contro chi ti spara, di bombardare chi ti bombarda, racchiude l’idea di "fare la guerra contro un’orrenda tirannia", come avrebbe detto Churchill, un altro disgraziato che amava farsi vedere in uniforme mentre si rifiutava ostinatamente di aprire "un negoziato di pace" con un imbianchino austriaco... Si esagera, ma mai quanto il bel mondo progressista, che mentre strilla al “putiniano” immaginario si ritrova per una volta compatto, ai piedi dell’unico premier che in pandemia lasciò scorrazzare mezzi militari russi sul suolo di un Paese Nato, e che oggi ha come priorità il guardaroba di Zelensky, francamente inopportuno, specie nei tg di prima serata. Ma è un problema tutto loro, riguarda un oggetto a cui hanno rinunciato da tempo, la logica elementare. Conte se la ride, e soprattutto ha trovato una nuova vocazione, quella che lo rende definitivamente irresistibile agli occhi di Schlein: l’armocromista.

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