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La palude del potere: civico 189, ecco dove si decide davvero tutto

Francesco Specchia
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Davvero i ceppi di un’umanità tormentata sono inferni di carta bollata, sospirava l’impiegato Franz Kafka, affogato nella burocrazia delle sue Assicurazioni generali. Il signor K, però, non era mai entrato nel Tar del Lazio. Buon per lui.

Sulla romana via Flaminia, al numero 189, nel cuore bradicardico di Roma, s’erge, in tutta la sua spettrale sacralità, la sede del Tribunale Amministrativo Regionale di tutti i tribunali amministrativi regionali d’Italia. Burocrazia allo stato dell’arte. Non è un caso che, sopra la targa ufficiale degli uffici, ne svetti un’altra, d’ispirazione sanitaria: “Edificio dotato di defribillatore, dono dell’Ordine degli avvocati di Roma. Ubicazione: piano terra, corridoio di destra, direzione Bar”.

Al bar ci arrivano in pochi, però. Di solito, i viandanti si perdono prima, stroncati dall’onda lunga degli atti, dei ricorsi, delle impugnazioni; inghiottiti dai suddetti inferni kafkiani che infiammano i corridoi del palazzaccio. Che, per capirci, è il luogo dove oggi le cronache registrano i numeri più incredibili di sempre sull’inevaso: un aumento del 24,7% dei ricorsi contro “il silenzio della pubblica amministrazione” nel 2023, rispetto al 2022. Secondo il pur volenteroso presidente dell’istituzione Antonino Savo Amodio nella sua relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2024, si è passati «dai 10.000 del 2020 ai 17.000 dell'anno appena trascorso, con la conseguenza che, al 31 dicembre 2023, ne risultavano pendenti ancora 38.400».

 

 

 

Amodio è un uomo prostrato. Sottolinea che, nonostante il carico di lavoro sia stato abbattuto, con l’arretrato i dati rimangono inoppugnabili: qui s’è toccato il superamento della soglia, mai prima raggiunta, delle 17.000 impugnative; incremento ancor più significativo se raffrontato con il dato nazionale, che ha visto una diminuzione di circa il 2,6% del totale dei ricorsi presentati. «Sulle principali materie trattate, i 5.098 ricorsi in materia scolastica e universitaria hanno inciso per circa il 30% sul totale; mentre 1.622 (il 9,5% del totale) è il volume in tema di superamento del tetto di spesa in ambito sanitario», ci notifica la Presidenza. Il quadro è questo.
Sicché, la missione del cronista è quella di penetrare nel porto delle nebbie della Pubblica Amministrazione. Di traversare questo limbo d’anime diafane in cui - unico caso nel nostro ordinamento- per la particolare competenza sui ricorsi amministrativi sono previsti solo due gradi di giudizio (l’ultimo è l’inappellabile Consiglio di Stato). Anche se il giudizio vero resta appannaggio degli dèi misericordiosi: il Tar del Lazio è un luogo metafisico. Di solito qui la corsa del mondo registra la sua battuta d’arresto. Il Tar del Lazio, diomio.

 

 

 

Ristrutturato in marmi oscuri, percorso da corridoi alla Shining, desertificato dalle folle di impiegati dal giorno della privatizzazione del pubblico impiego, il Tar si lascia bazzicare soltanto da alcune categorie: i magistrati, gli avvocati dello Stato, i funzionari di pubblica sicurezza. Per questo, le sue aule sorde e un po’ grigie sono vietate generalmente al pubblico e, tantomeno, alla libera stampa. Salvo in caso di udienze. Dunque, per infilarmi nei suoi budelli, mi mescolo alla frotta di colleghi esperti di diritto calcistico chiamati a documentare la cosiddetta “sentenza Giraudo”. Naturalmente io non ho la minima idea di cosa sia la “sentenza Giraudo”, né il diritto calcistico di cui si sta discutendo alla 5° sezione, aula B, 3° piano. Infatti, guardato a vista da un inappuntabile maresciallo dei carabinieri, vengo scortato all’udienza, di cui ignoravo l’esistenza stessa. Lì, preso sottobraccio da un paio di avvocati cassazionisti, subisco un grazioso interrogatorio.

Roba tipo: «Il problema è che non c’è una norma sulle plusvalenze, la giustizia sportiva non è autonoma, lei concorda con la fattispecie, vero?». Io annuisco, imbarazzato. Oppure: «Guardi, la verità è che la legge 28/07/2003 è un mostro giuridico, con un vulnus nella pena decidendum e nel nesso causale, non trova?». Io annuisco, e l’imbarazzo diventa panico. Sono costretto dal maresciallo ad ingerire l’intera arringa del collegio difensivo di non so chi.

Giancarlo Viglione, avvocato cassazionista col cordino d’oro a incorniciare la toga portata da casa («qui ne mettevano a disposizione, ma sono sparite tutte misteriosamente, diciamo...») vede la costernazione nei miei occhi. Mi spiega che qui si stratificano cause dal 2016. La durata media dei processi era fino a poco fa di 12-15 anni. «E pensi che il presidente Amodio dalla 1° sezione sta eliminando buona parte dell’arretrato. È stata creata addirittura una apposita “sezione smaltimento”, poi succede che tutti si appellano alla legge Pinto».

La Legge Pinto del 2001 è quella sul “termine ragionevole di durata del processo” che non può essere superiore a 3 anni; e qui, naturalmente, la burocrazia rende tutti fuorilegge che neanche la brigata di Sherwood, e si blocca di nuovo tutto. «Pensi che poi al Mef (ministero dell’Economia) c’è una sezione apposita per le sezioni apposite per l’esecuzione della Legge Pinto», aggiunge un’avvocatessa togata col cordoncino argentato. Siamo messi bene: un’altra entità burocratica per dipanare gli eccessi della burocrazia precedente.

Intanto il processo Giraudo si dilata, e si avvita sulla «vocazione europeista della giustizia sportiva», qualunque cosa significhi. Approfitto di una distrazione del maresciallo per scappare dai meandri degli organi statali di giustizia amministrativa di primo grado. Mi perdo tra gli uffici alla ricerca di una via di fuga, sembro Asterix nella storia delle Dodici Fatiche, inghiottito nel palazzo delle scartoffie e degli adempimenti. Risuonano nei corridoi le parole del presidente Amodio sulla «patologia diffusa» di questo luogo: «L’aumento del 24,7% di questi ricorsi nel 2023 è un segnale preoccupante del malfunzionamento della pubblica amministrazione. I giudizi di ottemperanza al giudicato, ossia i procedimenti che mirano a far rispettare le sentenze del Tar, sono stati 1.909 nel 2023, con un aumento del 33% sul 2022». Perdete ogni speranza, o voi ch’entrate.

Accelero il passo e incrocio le bacheche nei corridoi, ad evidenziare gli articoli sulle sentenze e l’onnipresenza del Tar del Lazio nella vita della nazione: “Tar Lazio: l’ex centrale di Montalto di Castro va demolita. Enel: Faremo ricorso”; “Tar del Lazio coinvolge la Consulta sul payback dispositivi medici”; “Tar del Lazio sulle plusvalenze dei ricorsi degli Agnelli”. Il maresciallo, mai domo, ha mangiato la foglia. E m’insegue nel labirinto delle cinque sezioni del Tribunale a cui s’aggiunge un numero imprecisato di sottosezioni, con 25 presidenti deputati alcuni dei quali “Consiglieri anziani facente funzione”. Alla fine, imbrocco l’uscita grazie alla pietas di un collega che vuole in cambio dritte sulla sentenza Giraudo. Realizzo che la vera riforma della giustizia dovrebbe iniziare da qui, dalla sua oscura anima amministrativa. E realizzo anche che Kafka, al confronto, era un dilettante...

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