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Torino, il piano dei 50 clan per inquinare il voto

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«Le ombre che sono state gettate in questi primi giorni dalla magistratura sono davvero inquietanti sul Sistema -Pd e mi domando se, in un altro contesto, Damilano e il centrodestra non avrebbero vinto le elezioni amministrative a Torino. Anzi, sarebbe una partita tutta da rigiocare l’affermazione di Lo Russo alle primarie», insinua Roberto Rosso, senatore di Forza Italia, visibilmente soddisfatto perché il partito ieri ha presentato la candidatura di Paolo Damilano all’Europarlamento. «Azzardo», insiste Rosso: «Senza il sistema Pd, probabilmente Paolo non sarebbe stato sconfitto tre anni fa e oggi sarebbe il primo cittadino».

Il sistema Pd è quello su cui stanno indagando i pm: voto di scambio in odore di ‘ndrangheta, la malavita veicola consensi a candidati che poi restituiscono favori con commesse pubbliche. L’ultima a finire sotto la lente è stata la corrente che fa capo a Raffaele Gallo, capogruppo dem in Regione non indagato, ma di fatto dimissionato dai pm. Ora sono i suoi uomini sotto la lente. Prima era toccato all’onorevole Mauro Laus, altro capobastone, su cui pende da un anno un’inchiesta che pare persa nelle nebbie della procura per utilizzo improprio di proventi derivanti dalle commesse pubbliche. Al momento lui e i suoi resistono, fuori dai riflettori, ma sono canne al vento.

 

 

 

Qualche anno fa invece non aveva resistito Stefano Esposito, anch’egli onorevole, re degli eventi, ricandidato in un collegio perdente dopo essere finito nei guai per l’accusa di traffici illeciti. In tutte le inchieste, a torto o a ragione, è apparsa ricorrente la parola ‘ndrangheta. I tre, fino a qualche anno fa erano il potere con la “P” maiuscola in città. Guerre intestine, indagini e qualche errore stanno cambiando il quadro. Si profila un grande vuoto, per la seconda volta in un decennio, ma c’è anche chi non rinuncia a studiare clamorosi ritorni.

 

 

 

I VUOTI IN CITTÀ
Il primo vuoto lo hanno lasciato San Paolo, quando la banca è stata di fatto rilevata da Intesa e il centro direzionale si è spostato a Milano, e Sergio Marchionne, che pur puntando sulla finanza per rimpinguare le casse degli Elkann, ancora si interessava all’automobile e al suo radicamento in Piemonte. Erano i tempi, se non di Fiat, quanto meno di Fca. Poi sono arrivati i francesi, Stellantis e il grande manager portoghese Carlos Tavares, strapagato per far quadrare i conti. Di passaggio a Torino, ieri ha detto che la casa dev’essere la sola a produrre in Italia, ma non ha preso impegni sul quanto e cosa.

Intanto, in attesa delle 250mila Cinquecento elettrriche, nel primo trimestre 2024 la produzione a Mirafiori è calata del 51%; i dipendenti sono 2.800, la maggioranza dei quali una volta si sarebbe detto pagati a cottimo. Torino abbandonata ha lasciato spazio ai clan della malavita organizzata. Meno auto, più doppiette, anche se oggi non si spara più. Perfino gli ‘ndranghetisti sono mezzi colletti bianchi. «Tra città e cerchia urbana, fin su nel Canavese, ci sono una cinquantina di famiglie, radicate da almeno vent’anni, tutte in stretti contatti con i clan della Costa Ionica», scrive Marco Bardesono su Torino Cronaca. Volpiano, Settimo Torinese, Carmagnola, ma anche Ivrea: questi i Comuni più contaminati. Ma anche il capoluogo non scherza: solo in città e nel suo hinterland ci sarebbero 33 gruppi criminali, 25 collegati ai calabresi, cinque a Cosa Nostra e tre alla camorra. Quasi un migliaio di persone tra affiliati e fiancheggiatori. Grandi numeri, che si spiegano con il fatto che Torino, tra prima e seconda generazione, è la città più popolosa della Calabria.

Negozi da taglieggiare ce ne sono sempre meno, il traffico degli stupefacenti non basta a soddisfare tanta richiesta di crimine e denaro. Così la malavita ha iniziato a pensare in grande: gli appalti sui rifiuti, le autostrade, l’edilizia, perfino gli eventi. La ‘ndrangheta non ha colore politico, guarda solo al potere. A Torino il potere è il Pd. In Regione invece il potere è il centrodestra e infatti l’assessore regionale Roberto Rosso, omonimo del senatore di cui sopra, finito in una brutta storia di compravendita di preferenze proprio a inizio mandato, si è dovuto dimettere.

 

 

 

MECCANISMO OLIATO
Il quadro che negli anni hanno disegnato gli inquirenti è piuttosto chiaro. Il partito si regge su chi porta i voti, i capocorrente e i loro uomini. Questi vengono avvicinati da intermediari semi-presentabili delle cosche, che muovono pacchetti di elettori. Quando si porta a casa il risultato, parte la restituzione dei favori, solitamente attraverso un altro intermediario che la politica piazza in ruoli strategici delle società pubbliche. Il sistema lo conoscono tutti, ma lo vedono in pochi, si muove sommerso. La superficie invece è più o meno linda.

Si scelgono come sindaco personalità credibili. Prima gente storica della Ditta, come la chiamerebbe Bersani, come Sergio Chiamparino, ma anche Piero Fassino, il segretario tornato in città. Poi, con la crisi della politica, professori e professionisti da sempre vicini al partito, come l’attuale primo cittadino Stefano Lo Russo. Persone che hanno uno standing e si mantengono ben al di sopra delle beghe e del correntismo, ma anche persone di mestiere che dovrebbero sapere come va il mondo in riva al Po.

Quanti voti muove la ‘ndrangheta? «Tanti, e in misura decisiva» afferma l’avvocato penalista Beatrice Rinaudo, che difende i collaboratori di giustizia. Il 5% dei voti? Probabilmente di più, almeno il 7-8. Ma questo in città, nella cerchia dei Comuni periferici si arriva tranquillamente al doppio. E gli eletti? Spesso l’utilizzatore finale, il beneficiario ultimo, non deve neppure sapere. L’importante è che la filiera sia infiltrata e compromessa. Il sistema per costruire consenso è rodato: associazioni culturali, civiche, tutto quello che possa rappresentare un cartello dietro il quale cementare la lobby. C’è chi giura che la grillina Chiara Appendino sia potuta diventare sindaco quando, causa patto di stabilità, il Comune si è trovato in bolletta e non c’erano più denari da elargire. Con grande scorno dei portatori di voti, ai quali è mancata la ricompensa e lo hanno voluto far sapere.

 

LE MOSSE DEI MODERATI

Da Roma, i parlamentari dem piemontesi sparano sui loro compagni. Andrea Giorgis e Anna Rossomando sono i più duri. Non a caso sono anche i più vicini a Elly Schlein. Dall’altra parte c’è il centrodestra, a cui la ‘ndrangheta ha iniziato a dare l’assalto, rivelano le ultime dalla Procura, che vedono indagato Enzo Liardo, non per mafia ma per peculato e istigazione alla corruzione. Si tratta di un ex dell’Udc, si dice fedelissimo di Vito Bonsignore, quel che resta di Giulio Andreotti in Piemonte, transitato in Fratelli d’Italia per calcoli personali.

Bisogna alzare il ponte levatoio e a Roma sembrano averlo già capito. Di certo l’ha capito chi ha candidato per le Europee Damilano, che con la sua lista, Torino Bellissima, ha preso il 12% alle Comunali del 2021, prima lista del centrodestra, dove ieri è rientrato. Dovrebbe riportare all’alleanza, e a Forza Italia che lo ha scelto, il voto moderato delle colline e del centro storico, che all’inizio aveva votato Berlusconi, quando qui la sinistra vinceva nei quartieri popolari e gli imprenditorispingevano l’economia anziché improvvisarsi radical chic.

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