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M5s, la vecchia guardia processa Conte dopo il sondaggio clandestino

Edda Guerrini
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A Campo Marzio, sede del M5S, le bocche sono cucite riguardo al giallo di un post pubblicato dal capogruppo al Senato, Stefano Patuanelli, ma velocemente scomparso. Post nel quale - camuffando il nome dei partiti per non violare la legge - diffondeva previsioni non proprio lusinghiere per il Movimento. In sostanza, a proposito delle elezioni europee, citando un sondaggio segreto e recente, sosteneva che a festeggiare saranno solo FdI e Pd.

Mentre tutti gli altri, Lega, Fi, ma anche M5S, dovrebbero viaggiare intorno al 10%. La fonte, a sentire le gole profonde grilline, dovrebbe essere un sondaggio commissionato proprio da Giuseppe Conte. Se dovesse essere confermato, la situazione non sarebbe rosea, se si considera che cinque anni fa il M5S prese alle europee il 17%, cioè 4 milioni e 569mila voti, portando a Strasburgo 14 eletti. Quasi la metà.

COSA NON HA FUNZIONATO
Insomma, un “Conte dimezzato”, per dirla con chi, in Transatlantico, ragiona su come cambierà lo scenario dopo il 9 giugno. Citazioni a parte, il tema vero è lo stato di salute del M5S. Tra i “vecchi” del Movimento la riflessione su quale debba essere la strada da prendere è già cominciata, se si debba insistere sul sentiero imboccato o se occorra chiedere un cambio netto. E non è facile.

Sono in molti, sia pure a microfoni spenti, a far notare che queste elezioni saranno le prime che testano la leadership di Conte. Lui, si dice, ha scelto la linea politica (scontro totale con il Pd e con Elly Schlein, mentre della Meloni ha ammesso ieri sera su La7 che «non è antidemocratica, ma fatica a dirsi antifascista»), lui ha fatto le liste, lui ha impostato il tipo di campagna elettorale, lui ha definito la comunicazione. La vecchia guardia è stata messa ai margini, di certo non coinvolta nelle scelte più importanti. A cominciare da Beppe Grillo, ormai da un anno lontanissimo (anche per sua scelta) dalla sua creatura. È evidente, dunque, che se queste elezioni dovessero andare male (perché un risultato intorno al 10% sarebbe un flop clamoroso) in molti ne chiederebbero conto. E c’è già chi parla di un ritorno a un “direttorio”, di una gestione “collegiale”.

 

Ma cosa - se i timori saranno confermati - non ha funzionato? Perché, questo è il paradosso: la fiducia degli italiani in Conte è altissima. L’ex premier resta uno dei primi leader per consenso degli elettori. Lui, personalmente, piace. Molto e in modo trasversale. Ma questo consenso non si traduce in voti al M5S. Perché? Questo è il grande problema.

Le ragioni sono diverse. La prima è che Elly Schlein gli ha rubato tutti i temi che caratterizzavano il Movimento: dal pacifismo alla legalità, dal sostegno ai redditi più bassi (vedi la battaglia su salario minimo o sulla sanità) all’ambiente, dalla vicinanza alla Cgil all’essere accanto a qualunque lotta dei lavoratori. Se prima era solo Conte a coprire questi argomenti e questi settori, tanto che veniva percepito come “il riferimento dei progressisti”, da quando Schlein è in campo, non lo si può più dire.

Le liste del Pd hanno furbescamente confermato questa svolta: c’è Lucia Annunziata, ma c’è anche Marco Tarquinio, c’è Giorgio Gori, ma c’è Cecilia Strada. Non si può, oggettivamente, dire che gli unici candidati pacifisti sono nel M5S. E così tanti voti di sinistra che si erano spostati sul M5S sono tornati a casa, nel Pd. L’altra ragione si sintetizza in due nomi che, altro paradosso, sono stata la fortuna del M5S: reddito di cittadinanza e Superbonus. Cancellato il reddito di cittadinanza e di gran lunga limitato il Superbonus del 110%, moltissimo del consenso al M5S è venuto meno. Per quanto riguarda il reddito di cittadinanza, l’emorragia di voti riguarda soprattutto il Sud.

 

STOP AL VOTO DI SCAMBIO
Quella misura era stata un’eccezionale calamita di consensi sotto Roma. Una cambiale in bianco da Roma in giù. Intere aree del Mezzogiorno avevano votato in massa il Movimento proprio per il reddito di cittadinanza. Prima perché era una promessa straordinaria, poi perché, avendolo fatto, molti elettori ne erano percettori e quindi speravano che, votando il M5S, quel sussidio avrebbe continuato a esistere.

Ora che il governo Meloni ha cambiato il sistema e l’Inps ha smesso di versare l’assegno, per molti è venuta meno la ragione di votare il M5S. Non c’è più l’incentivo a votare chi veniva percepito come il garante di quel sussidio. Stessa cosa per il Superbonus, che a tanti ha consentito di rifarsi casa. Ma ora è finita. Quindi, che senso ha votare M5S? La controprova è che la perdita decisiva sarebbe al Sud. Proprio da dove, nel 2013 e poi nel 2018, era cominciata la marcia trionfale del Movimento.

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