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Giovanni Toti, vince il processo mediatico: politica ancora sconfitta dalla forca dei giustizialisti

Daniele Capezzone
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Quanto dolore, quanta amarezza, amici lettori. Premessa doverosa: sul piano umano, si può solo comprendere (oltre che rispettare, ovviamente) la scelta di ieri di Giovanni Toti. È molto probabile che anche ognuno di noi, con non una ma più pistole puntate alla tempia, avrebbe preso la medesima decisione. Ma la tristissima morale della favola è che, per l’ennesima volta, ha vinto quella negazione della giustizia che occorre chiamare “processo mediatico”. L’accertamento della verità nel processo vero, davanti a un giudice terzo, non conta più: anzi, neanche ci si arriva. Un duro confronto tra ipotesi accusatoria e tesi difensiva non c’è, e quasi nessuno pare nemmeno dolersene. Tutto questo, in Italia, è stato silenziosamente ma ferocemente abolito: resta formalmente scritto nel codice di procedura, ma è ormai lettera morta. E allora cosa è realmente vigente? Un meccanismo in cui quel che conta è sparare il primo colpo. Cosa che – per evidenti ragioni – fanno le procure, assistite e accompagnate in un rapporto perverso dal sistema mediatico, con eccezioni sempre più rare. Come si procede, dunque? Si annuncia un’inchiesta (anzi: una “maxi-inchiesta”), si tiene una conferenza stampa, si diffonde (a senso unico) la versione dell’accusa, con particolari suggestivi e una “narrazione” già orientata ed efficace. Nel frattempo, il malcapitato oggetto dell’indagine è già in carcere preventivo o agli arresti domiciliari: ridotto a “non persona”, muto, imbavagliato, impossibilitato a dire mezza parola, e intanto picchiato selvaggiamente. (...)

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