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Sinsitra, un'opposizione senza voti e senza potere riesuma la mitica società civile

Corrado Ocone
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È un’onda salita dal basso. Trainata da attori, registi, atleti e influencer, che ormai non ne possono più della politica». È con toni lirici che Repubblica ha ieri sottolineato il raggiungimento del quorum delle 500mila firme necessario per sottoporre all’ammissione della Consulta il referendum che vorrebbe abbassare da dieci a cinque gli anni richiesti agli stranieri per ottenere la cittadinanza italiana.

«Valanga di firme» è il titolo che il quotidiano romano ha sparato, a scanso di equivoci, in apertura di prima pagina. Ora, a parte il fatto che la soglia delle 500mila firme è assolutamente bassa, e forse da rivedere, comunque non significativa per indicare un sentimento diffuso, quel che mi sembra interessante è riflettere su un improvviso ritorno a sinistra. Si tratta del mito della “società civile”: un déja vu che funziona come generatore di speranze, ma soprattutto di illusioni, ogni qual volta le normali vie della politica si dimostrano inadeguate a realizzare l’unico scopo che ai nostri in fin dei conti interessa, cioè rovesciare un governo liberamente eletto e prendere per sé tutto il potere. A questo punto si mettono sotto accusa i partiti e i politici della propria area non perché non siano capaci, come è fin troppo evidente, di proporre un programma unico, realistico e allettante ai propri potenziali elettori, ma perché non darebbero spazio a chi rappresenterebbe qualcosa di indefinibile ma di assolutamente progressista che si muoverebbe nella società. Che poi a rappresentare questo qualcosa siano gli intellettuali e gli esponenti di area del mondo dello spettacolo, è a dir poco spiazzante.

Vi ricordate Nanni Moretti che in un altro periodo critico per i nostri compagni, quello successivo al ritorno al potere per la seconda volta di Silvio Berlusconi, prese la parola ad un raduno di girotondini a Piazza Navona e urlò dal palco: «Con questa classe dirigente, non vinceremo mai!». Era il 2002, son passati oltre vent’anni e stiamo sempre lì. Come un fiume carsico sotterraneo, si sono avvicendati a sinistra tanti movimenti della “società civile” (promossi spesso occultamente dagli stessi partiti): avrebbero dovuto rivoltare le sorti politiche del Paese in men che non si dica, ma puntualmente hanno fatto flop.

Per tre motivi: perla poca credibilità dei loro leader, che spesso si muovevano solo per essere ricompensati con un posto pubblico dalle case madri (come puntualmente è avvenuto); per la mancanza di una base programmatica che andasse oltre il semplice “movimentismo”; per l’oggettiva mancanza di un corpo elettorale di riferimento. Dai professori di Pancho Pardi al popolo viola, dai girotondini fino alle Sardine, proprio la “società civile” chiamata in causa non ha mai risposto, o quanto meno non ha mai convertito in voti tutto il rumore mediatico che ha sempre accompagnato la nascita e la breve vita di questi fenomeni.

Il fatto è che la “società civile”, seppure esiste, oggi vota per lo più a destra. Né gli italiani sono così stupidi da seguire influencer e uomini dello spettacolo anche nelle urne: una cosa è essere fan, un’altra seguire i loro consigli elettorali, tanto più se essi rischiano di mettere a rischio interessi profondi e progetti di vita. Il concetto di “società civile” è presente da sempre nella cultura politica occidentale: è nato e ha avuto successo in un contesto liberale, come opposizione e salvaguardia di istanze e interessi di fronte all’espandersi delle prerogative e della sfera d’azione dello Stato. Essa si esprime in associazioni, gruppi di interesse stabili, comunità autonome di potere. Voler invece convertire le istanze della società civile immediatamente in istanze politiche, aumentando e non diminuendo la sfera d’azione dello Stato, è la vera contraddizione a cui la sinistra, che liberale non è, incorre ogni volta che la chiama in causa.

Senza dimenticare che la sinistra attuale non ha fatto i conti nemmeno col processo di individualizzazione che ha caratterizzato le nostre società in questi anni: i gruppi di potere non sono più stabili, ma ci si aggrega ogni volta su singole issues (anche le identità che esalta la cultura woke sono “fluide” per definizione). Non a caso il discorso della destra ha più successo: la parola “popolo” è forse vaga ma ha il pregio di corrispondere meglio ad una realtà in cui le faglie di divisione non sono più quelle di un tempo.

Quanto poi al referendum in questione, sulla immigrazione gli italiani hanno detto la loro: sono per un controllo delle frontiere rigido. Non per razzismo, come vorrebbe la lunare retorica di sinistra, ma proprio per quello spirito umanitario a cui si richiamano i promotori del referendum. Il quale, se non vuol creare conflitti inutili che danneggerebbero anche i tanti immigrati onesti, ha bisogno di convertire l’umanitarismo in politica e realismo. L”attuale governo lo sta facendo.

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