Anche se lo vedo spesso impegnato nei processi televisivi alla premier Giorgia Meloni, ai quali viene invitato su ogni rete, vorrei chiedere a Pier Luigi Bersani di rovistare fra le metafore ereditate dal padre, e quelle da lui inventate con l’umorismo che non gli si può negare, una applicabile alla giovane segretaria del suo ritrovato Pd Elly Schlein. Grazie alla quale lui e altri fuggiti ai tempi di Matteo Renzi sono tornati al Nazareno.
Non gli chiedo di attingere al repertorio zoologico delle mucche nei corridoi e negli uffici del Pd, o dei tacchini sul tetto, o dei giaguari e simili da smacchiare sugli scogli, perché francamente non vi trovo adatta la segretaria pluricromaticamente vestita. Ma ci sarà pure qualcosa di metaforicamente appropriato ad una donna dalle ambizioni e dalla fantasia crescenti, spintasi di recente, fra retroscena giornalistici e interviste, a preparare liste di ministri da portare al Quirinale ed appuntamenti elettorali, per un rinnovo anticipato delle Camere. Senza l’inconveniente referendario di giugno, con quel quorum del 50 per cento più uno di partecipazione degli elettori aventi diritto al voto necessario per abrogare una legge. Un inconveniente che, trascinata dal segretario della Cgil Maurizio Landini e da altri aspiranti al cosiddetto campo dell’alternativa al centrodestra, la Schlein ha deciso di sfidare su lavoro e cittadinanza.
«Non siano nemmeno così lontano», si è appena consolata la Schlein raccontando al Corriere della Sera di avere «visto un sondaggio in cui si prevede una partecipazione più alta del 40 per cento». Che pure dista, a quindici giorni dal voto, di una decina di punti dal quorum, o dal batticuore, come dicono gli ansiosi o spiritosi, o entrambi. Di solito in queste circostanze è meglio tacere che parlare. Come non seppe fare nel 2016 Matteo Renzi, che in un referendum pur senza quorum- contro la riforma costituzionale da lui fermamente voluta e fatta approvare in Parlamento, sotto molti aspetti apprezzabile, che era riuscita a spaccare anche la caserma di Repubblica diretta da Eugenio Scalfari si spese baldanzosamente una vittoria poi mancata. E probabilmente compromessa da quell’impegno, sconsigliatagli in privato al Quirinale da Sergio Mattarella, alla rinuncia alla politica in caso di sconfitta. Poi ridimensionato alle dimissioni solo da presidente del Consiglio, conservandosi per un altro anno, non di più, la segreteria del Pd.
Di unico, come referendum vinto grazie alla promessa o minaccia del presidente del Consiglio di dimettersi «un minuto dopo» averlo eventualmente perduto, rimane nella storia della Repubblica italiana quello del 1985 sui tagli alla scala mobile dei salari, promosso l’anno prima contro Bettino Craxi dalla Cgil di Luciano Lama su commissione dell’ancora segretario del Pci Enrico Berlinguer. Altri tempi ora rimpianti anche da Matteo Renzi, che allora aveva solo dieci anni. E adesso riconosce allo scomparso leader socialista di essere stato «il migliore presidente del Consiglio per visione e modernizzazione, come De Gasperi e Fanfani». Ci sarà rimasto male Giuseppe Conte, abituato dai suoi ammiratori a considerarsi “il migliore presidente del Consiglio dopo Cavour” nella storia italiana.
Ma torniamo alla Schlein, alle sue ambizioni elettorali, ed anche alla sua vana scommessa di portare alle urne referendarie di giugno almeno tutto il suo partito. E alla metafora che si meriterebbe da un Bersani finalmente tornato davvero al suo buon umore. Non una mucca, non un tacchino, non un giaguaro, ma forse un fantasma sui sui tetti del Nazareno e dintorni, avvolto nel lenzuolo prestato, dopo l’uso fattone a Montecitorio, dal referendario radicale Riccardo Magi sino a procurarsi l’espulsione dall’aula. Un fantasma alla guida di un’opposizione che non io ma il dichiaratamente antimeloniano Roberto D’Agostino ha appena definito non sulla sua Dagospia ma sul Corriere «più masochista che mai».