Che i referendum appena svoltisi avessero per la sinistra un valore soprattutto interno lo aveva ammesso candidamente la stessa segretaria del Pd qualche giorno prima del voto: «Non è una resa dei conti. È autocritica». Ora, quella stessa autocritica ci piacerebbe sentirla nei commenti sul voto dei leader della sinistra, ma ciò non accade. Anzi, in una sorta di capovolgimento della realtà, sentiamo parlare addirittura di una lezione inferta al governo da milioni di votanti. Cosa avrebbero pensato i vecchi comunisti di questo comportamento? Non è difficile rispondere: avrebbero parlato di infantilismo politico. Non avevano torto, almeno da questo punto di vista: non c’è politica ove non c’è un’analisi seria, rigorosa, persino impietosa, della realtà in atto, dei rapporti di forza che ne spiegano le dinamiche. Rapporti che una forza che si dice progressista deve tener presente per agire senza sbattere la testa.
Nelle vecchie riunioni dei comitati centrali o delle direzioni dei partiti comunisti, il leader, nella relazione introduttiva (spesso lunga e noiosa ma ascoltata con fideistica attenzione dai partecipanti), seguiva uno schema prefissato. Egli partiva da un’analisi della situazione internazionale, da essa faceva discendere le problematiche più specifiche al proprio paese, individuava quindi le (spesso presunte) contraddizioni del sistema e spiegava come secondo lui bisognava muoversi per inserirsi in esse e volgerle a vantaggio del Partito. Il tutto a partire da una lucida e spietata analisi degli errori commessi in precedenza. Era una sorta di autoconfessione collettiva interna che però non terminava con l’assoluzione, bensì con un rinnovato impulso all’azione che nasceva proprio dalla volontà di non commettere più certi errori.
Maurizio Landini, l'ultima sconfitta nel grande declino della Cgil
Nel giorno della disfatta, Maurizio Landini continua a coltivare la sua vocazione da illusionista. Il sindacalista ha pe...Palmiro Togliatti fu un maestro in questa arte, ma anche nei suoi successori (da Luigi Longo a Enrico Berlinguer e oltre) se ne trovano ampie tracce. Ovviamente l’autocritica era in mano ai comunisti un’arma di lotta politica: essa però si teneva sempre ben ferma al “principio di realtà”. Nel fondo de L’Unità del 22 dicembre 1952, intitolato “Autocritica comunista”, Togliatti accusava De Gasperi di non averne la capacità, osservando che «il metodo marxista e leninista dell’autocritica non è di facile assimilazione». L’autocritica aveva anche finalità di lotta interna, ovviamente. Essa segnalava l’esistenza dei nuovi equilibri di potere nel Partito e quindi anche il mutamento di linea politica. Nessuno si sarebbe però mai sognato di chiudere gli occhi davanti al reale. Era anzi proprio una “migliore” lettura dei fatti che portava ad interpretarli diversamente. A volte era lo stesso leader in carica a farsene portavoce, altre volte essa rifletteva traumatici cambi al vertici. Gli oppositori di Stalin, quando son venuti fuori dopo il XX Congresso del Pcus, hanno semplicemente opposto alla vecchia interpretazione dei fatti una nuova. La realtà delle persecuzioni politiche non era mai stata negata: semplicemente quelli che erano prima “traditori”, ora venivano riconosciuti come vittime sacrificali del dittatore. Né va dimenticata l’autocritica, spesso umiliante, che veniva imposta ai prigionieri politici, che arrivavano ad autoaccusarsi di colpe mai commesse. Sotto Mao, l’autocritica indotta raggiunse livelli di efferata crudeltà nelle cosiddette “sessioni di lotta”.
Avveniva davanti a un pubblico di compagni “fedeli” pronti a infierire, anche fisicamente, sui “traditori”. In sostanza, il metodo dell’autocritica era legato al realismo politico, cioè alla necessità di non negare mai la realtà che si aveva di fronte e di dare una risposta alle esigenze e ai sentimenti del proprio popolo guidandolo e indirizzandolo. Risposte illiberali e antidemocratiche, certamente, ma capaci di convincere tanti proprio per la loro aderenza al reale. La sinistra post-comunista ha perso il suo popolo perché in fondo lo disprezza e lo ritiene tanto stupido da bersi tutto: persino che una sonora sconfitta è in fondo una vittoria.