Uno dei dibattiti stucchevoli che s’aggira è quello sulla cultura di destra e quella di sinistra. Mentre la scuola spegne la curiosità culturale dei nostri giovani (dati Istat), mentre ricchi sceneggiatori e registi si ingrassano con soldi pubblici, mentre ai ragazzi che vogliono fare teatro, danza, poesia si dice che non ci sono “soldi per la cultura”, è colpevole dibattere per schemi. Tale schematismo, figlio di ideologie che hanno sempre visto l’uomo e la cultura entro il mero orizzonte della Storia e quindi della Politica, credo non tenga, e tanto meno oggi. Volerlo perpetuare e usarlo vuol dire che abbiamo un problema. Infatti tale idiota polarizzazione coincide con una crisi - che pur potrebbe essere salutare - del concetto stesso di cultura. Si ha davvero voglia di discuterne sostanza e pratiche? O continuiamo a fare piccole tristi bagatelle di nomine e schieramenti? Forse la prima liberazione della cultura andrebbe fatta dall’orizzonte puramente storicista, e quindi politico, in cui la si vuole comodamente rinchiudere. I poeti non amano il comfort. Se non è vista in prospettiva di una ricerca del vero e del vitale per l’anima umana, la cultura si riduce a serva degli schieramenti storico-politici. Tale servitù, madre di tutte le altre pratiche servili, va eliminata. Non c’è una cultura di destra o di sinistra, ma idee e visioni che finiscono per riconoscersi - e spesso parzialmente meglio espresse da una posizione politica cosiddetta di destra o di sinistra odi centro. Ma anche questo schema è entrato in crisi da un pezzo. Oggi le carte sono più confuse, e perciò più chiare. Perché la cultura non è fatta di schemi facili. Il sostegno dato a una manifestazione lanciata in nome dei “diritti” e forgiata su una idea “capitalista” della libertà e infatti sponsorizzata dalle più grandi aziende del mondo è di sinistra odi destra? La battaglia contro facili arricchimenti dei soliti noti nel cinema è di destra odi sinistra? La lotta contro la droga che rovina tante vite dove la collochiamo?
L’INGRANAGGIO MOSTRUOSO
Altra è la vera questione: ridurre il peso dello Stato come attore culturale. Questo è l’ingranaggio-monstrum che piega la cultura alla politica e alle mezze tacche, inevitabilmente. Oggi le attività culturali in Italia sono quasi tutte “dipendenti” dallo Stato. Quindi chi comanda nello Stato pensa di orientare, con erogazioni, nomine e apparati, la cultura. Con intoppi, problemi, scandali. E con paradossi evidenti, per cui è vero che l’apparato culturale statale per li rami ovunque è in buona parte nelle mani di persone che si riconoscono a sinistra, peccato che poi vinca la Meloni. E questo crea ovviamente terremoti e spazi nuovi, fortunatamente. La cultura reale del Paese guarda altrove da quegli apparati. La cultura di un Paese non è frutto del potere dello Stato e dev’essere raccontata diversamente. De-statalizzare la cultura non significa rinunciare al dettato costituzionale che vincola la Repubblica a sostenerla. Ma se la Repubblica è fondata sul lavoro e non sugli apparati, significa che i cittadini con il loro lavoro debbono sostenere la cultura. Possono, in breve, orientare mediante scelte fiscali, come avviene oggi per il 5 o l’8 per mille, il loro sostegno alla attività culturali, dando agli apparati la funzione di controllori, non di erogatori e produttori.
ROVESCIARE IL CANNOCCHIALE
Questa è la vera rivoluzione culturale: fidarsi dei cittadini. Il recente esperimento del 2 per mille alla cultura è stato vanificato (come accade in parte anche per l’Art Bonus) per rigidità regolamentari. Quei soldi raccolti nel 2021 giacciono immobili per motivi burocratici. È uno schiaffo ai contribuenti, come chiamano noi cittadini. Si rendano gli italiani contribuenti culturali, partecipi, e non oggetto o spettatori di bandi astrusi, di scelte sussurrate nei corridoi dei ministeri. Si rovesci il cannocchiale, si coinvolga, si abbia fiducia nelle scelte del popolo - parola che non ricordo più se è di destra odi sinistra. O forse la cantava mia nonna nelle processioni.