Non è una faida come quella tra guelfi e ghibellini, ma certo tira una brutta aria a Firenze nel campo progressista. Dopo i riflettori accesi su Milano, dove le inchieste sull’urbanistica stanno facendo tremare giunta e centri di potere, anche sotto la Cupola del Brunelleschi c’è agitazione.
Ventiquattro firme illustri – architetti, accademici, esperti di paesaggio – hanno indirizzato al sindaco Sara Funaro una lettera che sa di bocciatura. Tema: la “trasparenza” (o, meglio, la sua assenza) nelle procedure con cui la città decide cosa costruire, dove e soprattutto come.
Sotto accusa non è un piano, un progetto o un assessore. È l’intera Commissione per il paesaggio, organismo comunale che dovrebbe valutare le compatibilità architettoniche e ambientali delle trasformazioni urbane. Peccato che nessuno sappia chi la componga né cosa deliberi. Come scrivono i firmatari, tra cui spicca il nome dello storico dell’arte Tomaso Montanari, «il Comune di Firenze, sul suo sito istituzionale, non rende fruibili né i nominativi dei membri né i verbali delle sedute, tanto meno dedica una pagina alla commissione». Più che una stanza dei bottoni, una camera oscura. E ancora: «La trasparenza è una precondizione indispensabile per garantire l’interesse pubblico nello svolgimento dei lavori». E qui non si tratta solo di buone intenzioni: se non si conoscono i componenti dell’organo decisionale, diventa impossibile verificare eventuali conflitti d’interesse o incongruenze nel giudizio. Una prassi che, nel cuore del rinascimento urbanistico invocato da Palazzo Vecchio, rischia di sembrare una dimenticanza medievale.
Gli esempi in città non mancano: dalla “specchiera” dell’ex Teatro Comunale alle residenze di pregio in Costa Scarpuccia, passando per la piscina sotto i bastioni del Forte Belvedere e il “social hub” di viale Belfiore, fino al recupero dell’ex Manifattura Tabacchi. Interventi significativi, ma accompagnati da una totale opacità sulle motivazioni e i criteri che ne hanno autorizzato l’iter.
Perché è qui che sta il punto: in una terra che ha dato i natali a Leonardo da Vinci e al concetto stesso di armonia delle forme, ogni scelta sullo spazio dovrebbe avere una giustificazione pubblica, intellegibile, documentabile. Non un responso oracolare di esperti sì, ma ignoti.
A dare autorevolezza e spessore alla richiesta degli studiosi è intervenuto anche l’Ordine degli Architetti, che ha preso posizione con una nota che, nonostante i toni misurati, suona come un pugno dentro un guanto di velluto: «Auspichiamo che il Comune accolga le istanze presentate dai firmatari dell’appello». Dal canto suo, Palazzo Vecchio prova a minimizzare. L’assessore all’Urbanistica Caterina Biti ha dichiarato che «c’è piena trasparenza» e che i nomi dei commissari si possono trovare online. Una rassicurazione che però cozza con l’esperienza concreta. Ancora più spiazzante è l’invito rivolto ai cittadini: chi è interessato può chiedere i verbali tramite «accesso agli atti».
Una soluzione che, nella pratica amministrativa, si traduce in un percorso farraginoso, inaccessibile ai più, lento, vincolato a regole procedurali e soggetto a silenzi e proroghe. In sintesi: non è una misura compatibile con i principi di trasparenza, efficienza ed efficacia perché carica il cittadino di un onere sproporzionato rispetto al diritto di conoscere.
Il paradosso è evidente. In una realtà che ha fatto della cultura il suo vessillo e che, nel pantheon della sinistra, è simbolo di civismo e partecipazione, scoprire che le decisioni urbanistiche vengono prese da organismi anonimi lascia perplessi anche i più indulgenti. E che a sollevare il caso siano figure come Montanari – non certo sospettabili di militanze destrorse – aggiunge una dose di imbarazzo in più a sinistra. Dante ci avrebbe costruito una terzina su li segnori de li paesaggi, giammai veduti da persona.