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Pressing su Silvia Salis per sfidare la Schlein. E mezzo Pd processa Elly

martedì 23 settembre 2025
Pressing su Silvia Salis per sfidare la Schlein. E mezzo Pd processa Elly

(Ansa)

3' di lettura

Si rassegnino, quelli che la immaginano come leader dei centristi. Silvia Salis, dice un alto dirigente del Pd, «pensa a Palazzo Chigi». È vero che Dario Franceschini guarda a lei come a un nuovo Rutelli, quella che può ricostruire una sorta di Margherita 2.0. E lo stesso Matteo Renzi, anche se in questi giorni sta frenando, perché ha capito che il suo jolly rischia di essere bruciato. Ma la sindaca di Genova, ex campionessa di lancio del martello, ha imparato dalla sua precedente vita sportiva che bisogna puntare al podio più alto.

Scordatevi che si accontenti di meno. Ecco perché, da un po’ di tempo, al Nazareno è scattato l’allarme. È vero che lei, a ogni domanda sul punto, nega e ripete che gli elettori l’hanno da poco scelta per fare il sindaco di Genova, lavoro impegnativo e bello, e dunque lì rimane, ci ripensiamo fra cinque anni.

Roberta Pinotti, sua prima consigliera (è lei che l’ha “scoperta”), non ne vuole nemmeno sentir parlare. Perché sa che, così, si brucia. Ma se si dovessero svolgere le primarie di coalizione per scegliere il candidato premier - e la scelta sarebbe obbligata se il centrodestra, come sembra, cambiasse la legge elettorale prevedendo l’indicazione obbligatoria del candidato premier - allora le cose cambierebbero. Tutti le chiederebbero in candidarsi. Troppi per dire no.

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Il problema è che la sua candidatura rischia di fare male a Schlein. Giuseppe Conte si presenterà. E farà sul serio, cercando di prendere voti nell’elettorato dem. Qualunque altra candidatura rischia di prendere voti alla segretaria del Pd. Tanto più un’amministratrice sostenuta da una coalizione di centrosinistra. Se anche non vincesse, potrebbe togliere voti che, altrimenti, sarebbero andati alla segretaria. Lo scenario da incubo su cui si sta ragionando al Pd è che una parte del mondo dem voti Conte - quelli per cui è ancora il presidente del Consiglio che ha tenuto il timone in uno dei momenti più drammatici vissuti dal Paese - e una parte, magari i riformisti, quelli che mal si adattano al corso della segretaria, voti Salis.

Intanto, oggi, Schlein riunirà la direzione, convocazione che è stato oggetto di malumori fortissimi tra i riformisti e che ha portato, di fatto, a una spaccatura dentro quella che era l’area nata alla fine del congresso, Energia Popolare.

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Relazione della segretaria” è l’unico punto all’ordine del giorno, motivo per cui i riformisti, che attendevano una convocazione da sette mesi, hanno protestato. Hanno capito, infatti, che anche questa volta, con le elezioni regionali marchigiane il prossimo week-end, primo step dell’autunno elettorale, non si discuterà di nulla. «Farà un intervento pre-elettorale e la cosa finirà lì», è la previsione alla vigilia.

Del resto nessuno vuole passare come quello che crea divisioni a pochi giorni da un voto decisivo. Lo stesso Stefano Bonaccini ha messo in chiaro che il popolo non gradirebbe. Motivo per cui, oggi, spiccheranno le assenze. Lorenzo Guerini si collegherà da remoto. Simona Malpezzi è in Armenia per partecipare all’assemblea parlamentare della Nato. Alessandro Alfieri, che è il portavoce di Energia Popolare, è a New York per l’assemblea dell’Onu.

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Il dibattito, insomma, è rimandato. Ma questo non significa che nel Pd fili tutto liscio. Tutt’altro. Certificata, ormai, la fine di Energia Popolare, lo zoccolo duro dei riformisti, formato da Guerini, Giorgio Gori, Lia Quartapelle, Pina Picierno, Filippo Sensi, prepara un evento che si terrà a Milano in ottobre. Bonaccini è ormai visto come organico all’attuale maggioranza. La convinzione, però, è che serva definire un’area riformista dentro il Pd. Anche per non diventare del tutto irrilevanti, accettando il teorema-Franceschini che delega a un centro fuori dal Pd la rappresentanza dei riformisti. Nessuno vuole, ora, fare la guerra a Schlein. Ma dopo le regionali, il dibattito non potrà più essere evitato. Molto dipenderà dall’esito delle elezioni che si svolgeranno da qui a dicembre, impegnando ben sette regioni. Se il Pd ne uscirà bene, strappando una regione in più, sarà un conto. Se, invece, dovesse pareggiare o, peggio, perdere anche dove ora governa, si aprirà un altro film.