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Qualche proposta di possibili riforme

Sia chiaro non voglio presentare ricette confezionate, ma formulare solo invocazioni disperate di chi vede la proprio nazione in enormi difficoltà nel dare un senso moderno e insieme democratico alle proprie istituzioni, a partire da quelle locali
di Lodovico Festasabato 6 dicembre 2025
Qualche proposta di possibili riforme

4' di lettura

Che cosa non mi convince nell’idea di riproporre l’obbligatorietà del voto con annesse pur minime sanzioni, per contrastare la massiccia astensione degli elettori manifestatasi nelle recenti regionali in Campania, in Puglia e in Veneto? È il fatto che questa proposta è ispirata da un passato che non c’è più: quando i partiti atlantisti erano preoccupati di una sinistra legata all’Unione sovietica particolarmente capace di mobilitare gli elettori. Di fatto questa tendenza a guardare al passato invece che comprendere quali sono i problemi innanzi tutto istituzionali del presente e del futuro, è quella che ha in parte paralizzato la politica italiana sin dal 1992. È ben presente in questo atteggiamento l’opportunismo di settori del ceto politico e dell’establishment che derivano diretti benefici dal mantenere tutto così com’è.

Ma c’è pure la non incomprensibile paura di mettere - nel trentatriennio difficile e spesso caotico che si apre con Mani pulite- le mani nella Costituzione. Eppure va presa coscienza del fatto che la parte ordinamentale della Carta fondamentale del nostro Stato è largamente segnata da un contesto internazionale formatosi tra il 1945/1947 ma finito tra il 1989 (caduta del Muro di Berlino) e 1991 (scioglimento dell’Unione sovietica). Così il nostro anomalo semipresidenzialismo (certi poteri del Quirinale, difformi dalle altre democrazie parlamentari, compensavano il peso dei comunisti in Parlamento); il nostro radicale bicameralismo consentiva di correggere al Senato le leggi eventualmente elaborate da una Camera troppa influenzata dal Pci; la fragilità dei poteri del premier permetteva alle forze atlantiste la certezza del controllo sulla trattativa con l’opposizione di sinistra; la lunga difesa di un sistema elettorale essenzialmente proporzionale frenava brusche svolte politiche e aiutava i partiti a svolgere quella mediazione tra cittadini e Stato, difficile per istituzioni segnate da divergenze di sistema e non solo politiche, che dunque le rendeva meno universalmente autorevoli di quanto avvenisse in altre grandi democrazie.

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E infine il citato “contesto storico” determinava un sistema delle autonomie e del decentramento che, nonostante il peso che città e contadi hanno nella storia italiana, era largamente sottomesso allo Stato centrale. Alla fine l’unico grande compromesso costituzionale, tra quelli determinati dalla Guerra fredda, sostanzialmente saltato è quello sul sistema giudiziario: Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti si accordarono per non toccare la scelta ipercorporativa fatta dal fascismo unificando le carriere, preoccupati che i magistrati assumessero un ruolo troppo politico, e garantirono insieme l’autonomia del Parlamento con immunità e semplificate amnistie. Nel 1992 sono saltati i contrappesi che difendevano la centralità della volontà popolare, tra il 2025 e il 2026 (referendum permettendo) verrà strutturalmente superato l’assetto ipercorporativo del sistema giudiziario.

Su tutti gli altri temi che riguardano istituzioni figlie della Guerra fredda, la Seconda repubblica si è caratterizzata per non scelte o per scelte non sistemiche: Massimo D’Alema voleva creare un clima costituente ma fu richiamato all’ordine dai Gherardo Colombo, Matteo Renzi ha tentato un’ambiziosa riforma delle istituzioni ma lo ha fatto organizzando un referendum sul proprio “ego”. Silvio Berlusconi ha fatto il suo dovere d’ufficio sulle riforme istituzionali ma senza organizzarsi per farle passare. Un po’ di scelte sono state attuate sul decisivo fronte autonomia/decentramento ma sempre segmentate: così i referendum di Mario Segni che hanno dato stabilità con l’elezione diretta di sindaci e governatori, ma, non elaborate organicamente, hanno reso quasi inutili “i consiglieri” eletti ai vari livelli aiutando così i processi di dequalificazione della politica e generatori di astensionismo; Franco Bassanini ha fatto passare scelte strampalate sui poteri regionali per cercare di spostare a sinistra voti leghisti preparando così un caos rimediato solo decenni dopo e proponendo pure una certa separazione tra funzioni tecniche e politiche che è stata la base, per esempio, della sconsiderata politica urbanistica di Giuseppe Sala.

Poi c’è il grande pasticcio di Graziano Delrio su Province e Città metropolitane (di queste ultime non si legge mai un solo rigo sui giornali: sarà un caso?). Ora si stanno facendo i conti con la autonomia differenziata delle Regioni: si era iniziato bene con l’appoggio anche di Stefano Bonaccini ma il “buon inizio” è finito nel tritarcarne propagandistico di Elly Schlein & soci. Bisognerebbe in questo contesto prima di proporre nuove scelte esaminare attentamente le idee che possono aiutare a trovare soluzioni serie. Qualche tema su cui riflettere?

Non ci può essere un ritorno del ruolo di partiti legati ai cittadini se vi sono sistemi di voto troppo differenziati a livello locale, regionale, nazionale. Le regioni, anche grandi, sono forse troppo piccole per legiferare su troppi temi, bisognerebbe considerare se il nuovo contesto storico, con una democrazia ancora garantita dall’europeismo (naturalmente da riformare per salvarlo), consenta un decentramento radicale con quattro macroregioni espressione del momento più alto dell’influenza italiana nel mondo: il Quattrocento con il Ducato di Milano, la Repubblica di Venezia, l’egemonia medicea su Roma e Firenze, e il regno delle Due Sicilie.

Se questo sogno è impossibile, non conviene allora puntare su una trentina di regioni che radichino di più gli enti territoriali- alleggerendoli nelle funzioni - sul territorio, e giustificando così anche l’abolizione delle province? Sia chiaro non voglio presentare ricette confezionate, ma formulare solo invocazioni disperate di chi vede la proprio nazione in enormi difficoltà nel dare un senso moderno e insieme democratico alle proprie istituzioni, a partire da quelle locali.

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