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Se la sinistra non digerisce che l'Unesco abbia premiato la nostra cucina

Secondo Il Domani sarebbe colpa del governo di destra, sovranista e populista se il mondo l'ha bevuta e ha dato alla nostra tradizione l’etichetta di patrimonio immateriale dell’umanità
di Marco Patricellivenerdì 12 dicembre 2025
Se la sinistra non digerisce che l'Unesco abbia premiato la nostra cucina

3' di lettura

È la somma che fa il totale, diceva Totò. Nella cucina italiana il totale è impressionante e gli addendi per la somma sono talmente tanti che ne sfugge sempre qualcuno. E allora sopra a “Italia” il bollino di patrimonio Unesco ci sta tutto. È il capello che non deve stare in cucina, neppure se spaccato in quattro come fa Domani che aggiunge a forza l’ingrediente sbagliato: la venatura politica, che c’entra come i cavoli a merenda. Secondo il quotidiano debenedettian-progressista sarebbe colpa del governo di destra, sovranista, populista, conservatore e pure imbroglioncello e pressante, se il mondo l’ha bevuta e ha dato alla nostra tradizione l’etichetta di patrimonio immateriale dell’umanità. Se la cucina italiana è un’invenzione, come ci si ostina a voler ribadire, andrebbero fatti i complimenti a chi l’ha inventata, perché la ciambella è lievitata bene ed è fuori pure col buco. La polemica d’aria fritta accompagnata dalla tempesta in un bicchiere d’acqua minerale manda in brodo di giuggiole gli snob del sushi in terrazza che schifano la mozzarella in carrozza in trattoria.

La tradizione culinaria italiana è una formidabile sovrapposizione e contaminazione di localismi e regionalismi, unico brodo di coltura di una cultura che inventò i Comuni, l’arte e la bellezza, anche tra pentole e pignatte, mentre altrove si assemblavano gli stati nazionali. Pensiamo all’Inghilterra e alle sue specialità a tavola per ritenerci, almeno da questo punto di vista, assai fortunati a non deliziarci col pudding e con fish and chips. Che poi rane e lumache ci uniscano ai francesi, de gustibus. Quanto al resto, ed è tantissimo, non c’è partita. In Italia puoi mangiare formaggio tutti i giorni e per esaurire l’elenco ci vorrebbe un anno e mezzo. E infatti all’estero imitano i formaggi italiani con nomi assonanti per ingannare i consumatori, mica le giuncate del Montenegro o i caprini d’Albania. Il cuoco di Caterina de’ Medici inventò il gelato e la regina Bona Sforza portò le verdure in Polonia, tanto che in polacco gli ortaggi si chiamano ancora oggi “cose italiane”, quando allora Italia era solo sinonimo di Penisola. Raffaele Esposito battezzò Margherita come la regina la pizza tricolore simbolo di Napoli, patria pure del caffè di cui non un solo chicco è italiano. Questo è il Paese dove una cosa proveniente dalla Cina, gli spaghetti, e una cosa arrivata dall’America, il pomodoro, sono state messe insieme e con mille varianti.

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Eppure non c’era un governo di centrodestra in nessuna delle epoche che hanno fatto la nostra storia gastronomica, a premere per l’esportazione e l’imposizione di marchi, brevetti e riconoscimenti, come furoreggia la stampa organica ai demolitori seriali del concetto stesso di italianità e di identità, con la solita e stantia pappetta politica. Vero è che anche da noi i banchetti non sono mai stati immuni da derive: nella Roma imperiale i servigi di Locusta per correggere alcune portate in maniera letale erano remunerati più dei cuochi che si applicavano alle ricette di Apicio; nel Rinascimento erano divenuti proverbiali i ritocchini per sbarazzarsi di avversari e nemici durante una libagione. Qualche schizzetto di veleno deve essere finito anche nell’inchiostro delle penne denigratorie del riconoscimento Unesco, che certo non cambia la vita di nessuno ma neppure lo stato delle cose. In quel piatto che certifica un successo globale, c’è chi preferisce sputare andando invece a magnificare le delikatessen esotiche di qualche attico pariolino come esempi di grande tradizione nazionale, da rapportare alla Casa di Yamato del VI-VII sec. a.C. per il Giappone, o alla dinastia Shu della Cina del 1600 a.C., o all’imperatore azteco Montezuma II per intercessione del dio Quetzaolcoatl per farne il manifesto del Messico. In “Sabato, domenica e lunedì” Eduardo De Filippo svela i segreti del ragù napoletano, ma oggi è Domani ad apparecchiare la tavola con le briciole avanzate dai rosiconi. Un’ossessione. Da chiamare Cannavacciuolo per salvare l’ennesima cucina da incubo.