Pensioni, Geroldi: "Legge Fornero non si può abolire, solo 'flessibilizzare'"
Roma, 9 gen. (Labitalia) - "Impossibile abolire la legge Fornero perché bisognerebbe trovare una copertura finanziaria di dimensioni insostenibili". Così Gianni Geroldi, economista esperto di materia previdenziale (è stato consigliere economico di diversi ministri del Lavoro e componente del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale, ora chiuso, che aveva il compito proprio di monitorare la spesa pensionistica), commenta con Labitalia quello che sta diventando uno dei temi portanti della campagna elettorale: l'abolizione della legge Fornero. "Quando si parla di pensioni -spiega Geroldi- il costo da calcolare di un'eventuale revisione o abolizione del sistema in vigore, non è mai solo quello dell'anno corrente, ma quello dato dalla sommatoria di anni. C'è poi la questione fondamentale: ossia che le persone in pensione sono sostenute da quelle che lavorano. Le misure statistiche si riferiscono convenzionalmente a una popolazione in età da lavoro tra i 15 e i 64 anni. Ma questi confini nella realtà sono stati modificati: si può fissare una prima data di entrata nel lavoro convenzionalmente a 20 anni così come si è spostata la data di uscita". La critica che fanno alcuni ai calcoli sui fabbisogni economici per la spesa previdenziale è che le stime sono fatte sulla situazione attuale e senza considerare l'aumento (prevedibile e auspicabile) del tasso di occupazione. "Guadagnare punti in tasso di occupazione -replica Geroldi- dà certamente vantaggi alla previdenza e anche e soprattutto al sistema di protezione sociale, di cui si parla poco, ma che ha costi notevoli. Tuttavia, la 'compensazione' tra ingresso di nuovi occupati e anticipo di età pensionistica è molto lontana. Così come, per reperire risorse, non si può certo aumentare l'aliquota contributiva previdenziale, già molto alta nel nostro Paese". "Ma se continua l'aumento di occupati che abbiamo cominciato a registrare nel nostro paese -continua Geroldi- si può ipotizzare un alleggerimento del carico contributivo sul lavoro, riducendo il cosiddetto cuneo fiscale". Geroldi ricorda che "la legge Fornero è stata varata in un momento di emergenza e sotto la spinta di pressioni internazionali, per questo è una misura rigida che però ha già cominciato a essere resa più flessibile, come dimostra l'accordo siglato dal governo Gentiloni coi sindacati sulle categorie che non saranno soggetto all'adeguamento automatico dell'età di pensione all'aspettativa di vita". "E mi pare che su questa strada, di rendere meno rigide le regole di uscita, si stiano avviando anche Pier Carlo Padoan e alcune dichiarazioni della stessa Fornero", dice Geroldi che ricorda: "Quando nel 1995 abbiamo cominciato a mettere mano al sistema previdenziale con la riforma Dini, la media dell'età di uscita dal lavoro era di 51 anni. Ci ponemmo l'obiettivo (che allora sembrò ambiziosissimo) di portarla a 60, stabilendo un range di uscita nella fascia di età 57-65 anni". "Ragionavamo, insomma, su una fascia di età 50-60 anni e portare la gente ad andare in pensione a 60 anni era sì un obiettivo ambizioso, ma ragionevole. Oggi, invece, si ragione sul decennio 60-70 anni, in cui oggettivamente la quota di coloro che hanno difficoltà a continuare il loro lavoro aumenta", osserva Geroldi. Per questo, prosegue, "occorre più flessibilità in uscita, anche perché oramai chi ha il vecchio sistema retributivo è una quota in via di estinzione, chi ha un sistema misto pian piano vedrà adeguarsi la prestazione al contributivo e quindi quando tutti saranno con il contributivo, che è concepito come una sorta di conto individuale con cui ognuno si paga la pensione, l'età anagrafica avrà importanza solo ai fini dell'adeguatezza dell'assegno pensionistico". Occorre, dunque, andare avanti nella strada di individuare categorie cui dare l'opportunità di essere 'flessibili', dice il professore. Ci sono, però, settori di lavoratori penalizzati dalla riforma Fornero: le donne, i giovani a basso salario, chi ha una carriera lavorativa discontinua. "In questi casi -propone Geroldi- piuttosto che pensare di dare a tutti un minimo di 1.000 euro come propone Berlusconi (cosa che creerebbe una discriminazione nei confronti di quei tanti pensionati che 1.000 euro li percepiscono dopo aver versato una vita di contributi), meglio fare quello che gli inglesi chiamano matching contribution". Si tratta, spiega l'economista, di "un sostegno pubblico ai contributi individuali, dato durante la carriera". "L'ampliamento dei contributi entra direttamente nel conto personale -sottolinea- ed è stabile, non soggetto a leggi o regole che possono cambiare. E' una dote individuale che costituisce anche un forte incentivo all'emersione del lavoro nero". Uno dei vantaggi di questa misura, conclude Geroldi, "è che questi soldi escono realmente dalle casse dello Stato solo al momento in cui il lavoratore va in pensione".