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Coronavirus, che fine ha fatto la cura al plasma? L'appello del mondo scientifico: "Semplificare le procedure"

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Ar. Mo
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Che ne è della terapia col plasma iperimmune, quella che usa il sangue dei pazienti guariti dal Covid per curare i malati? Presentata a volte come la terapia risolutiva, osteggiata da Big Pharma per i suoi costi contenuti, il mese scorso uno studio indiano condotto su 464 pazienti ne aveva apparentemente dimostrato l'inefficacia; ma solo apparentemente: per quello studio in effetti era stato utilizzato semplice plasma di pazienti guariti, e non il plasma ricco di anticorpi neutralizzanti richiesto dalla cura. Nel frattempo il plasma viene utilizzato in via «compassionevole» in alcuni ospedali italiani (come il Carlo Poma di Mantova, dove Massimo Franchini, direttore del servizio di immunoematologia e medicina trasfusionale, assicura che le guarigioni, su 150 pazienti trattati, superano il 90%) e stranieri: Cesare Perotti, direttore del servizio immuno-trasfusionale del Policlinico di Pavia, ha spiegato alla Verità come già 85.206 malati americani abbiano finora ricevuto la trasfusione.

 

 

«L'Italia scopre la terapia, ma poi sono gli altri che la applicano sul larga scala», ha denunciato il dottore. Per l'applicazione su larga scala anche da noi è in corso una sperimentazione che coinvolge (sulla carta) 76 ospedali. Ma le procedure vanno a rilento. Francesco Menichetti, direttore dell'unità malattie infettive all'Azienda ospedaliero-universitaria di Pisa, che ha il compito di coordinare la sperimentazione, intervistato la scorsa settimana da Italia Oggi, si è detto sconsolato: «Al protocollo hanno aderito 76 centri ma finora ne sono stati attivati solo 15 e di questi soltanto 8 hanno arruolato pazienti: sette in Toscana e il Niguarda a Milano (nel frattempo qualcosa si è mosso, martedì anche il Carlo Poma di Mantova ga arruolato il suo primo paziente, ndr)». I pazienti coinvolti sono meno di 40 mentre «per portare in fondo la sperimentazione serve raggiungere la quota di 476 pazienti, e 250 per stilare una prima analisi preliminare». Menichetti chiama in causa le «procedure che stanno determinando ritardi burocratici e amministrativi indegni, perché per firmare un contratto con Aifa e Iss ogni singola azienda ospedaliera deve seguire una procedura diversa». Quindi ha lanciato un sos al ministro Speranza: «Se fa un decreto che semplifica le regole, in fondo ne fanno dieci al giorno, si potrebbe rimettere in moto la macchina e sollecitare ai centri di riprendere l'arruolamento»

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