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Variante Delta, Giuseppe Remuzzi: "Come difendersi", ciò che non ci sapeva sul virus

Tobia De Stefano
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Professor Remuzzi lei è stato il primo a esporsi in modo chiaro sulla possibilità di vaccinarsi con Astrazeneca e poi fare la seconda dose con Pfizer o Moderna. Ci sono altri dati che dimostrano i vantaggi della cosiddetta eterologa?
«Pochi giorni fa, il 17 agosto, su Lancet è stato pubblicato uno studio di ricercatori tedeschi, con un numero di pazienti relativamente piccolo, ma molto importante, che mette a confronto la capacità di neutralizzare il virus degli anticorpi di persone che hanno fatto due dosi di Astrazeneca con quella di chi ha usato Astrazeneca per la prima e Pfizer per la seconda iniezione. Si è visto che i secondi avevano una risposta immune molto più robusta rispetto alle varianti».

Ci sta dicendo che la vaccinazione eterologa protegge di più rispetto ai contagi da variante Delta?
«Secondo questo studio, considerando lo stesso intervallo tra la prima e la seconda dose, la capacità di neutralizzare la variante Delta è davvero superiore per l'eterologa rispetto all'omologa».

Sbaglio se dico che facendo l'eterolga potremmo evitare la terza dose?
«Tutto questo non si applica necessariamente a chi fa due dosi di Pfizer e poi dipende da tante variabili, inclusa la risposta cellulare, e qui il problema è molto più complesso anche da studiare».

La maggior protezione dell'eterologa riguarda tuttele varianti?
«Lo studio del Lancet dimostra che l'omologa riesce a neutralizzare con efficacia la variante Alfa, ma è meno "forte" con Beta, Gamma e Delta. A differenza dell'eterologa che è molto efficace rispetto a tutte le varianti».

Professore, sarebbe una svolta anche per la vaccinazione degli adolescenti?
«Non è facile risponderle perché i dati riferiti all'eterologa sugli adolescenti sono ancora pochi, ma è verosimile che sia così, sempre tenendo presente che chi ha avuto due dosi di Pfizer è altrettanto protetto anche dalla variante Delta».

E il problema delle trombosi con Astrazeneca che è stato così dibattuto?
«È uscito oggi da ricercatori inglesi di Oxford uno studio realizzato su 30 milioni di persone che compara l'incidenza delle trombosi su chi si è vaccinato e chi invece ha preso il Covid. C'è un rischio di trombosi associato a piastrine basse molto raro con Astrazeneca, la forchetta va da un caso ogni 100 mila iniezioni a un caso ogni milione a seconda dell'area geografica».

Mentre con gli altri vaccini?
«Lo studio evidenzia casi altrettanto rari di trombosi arteriosa e venosa per Pfizer e Moderna. Il punto è che se prendi il virus la probabilità di avere una trombosi è da 5 a 10 volte superiore e stiamo parlando di una forma di trombosi più grave e che dura più a lungo».

Torniamo agli adolescenti.
«Bisogna riconoscere che i ragazzi hanno dimostrato di essere più motivati degli adulti, ma ricordiamogli sempre che la vaccinazione limita la circolazione del virus. È quindi giusto che soprattutto loro, che hanno una vita sociale più attiva, si immunizzino».

Tanti giovani le risponderebbero che in caso di contagio corrono pochissimi rischi.
«È vero, per gli adolescenti e soprattutto per i bambini quasi sempre il Covid è paragonabile a una semplice influenza. Ma ci sono ragazzi che hanno altre patologie ed è quindi fondamentale che si vaccinino, così come bisogna ricordare che nei più giovani questo virus può comportare una forma rara di sindrome infiammatoria multisistemica che è una malattia grave e può dare complicazioni anche a distanza di tempo».

C'è stato proprio di recente il caso della pallavolista Francesca Marcon, anche se non è proprio un'adolescente, che sostiene di essere stata colpita da pericardite a causa del vaccino. «Può succedere molto raramente che gli over 16 siano colpiti da miocarditi o pericarditi. Questi episodi si verificano dopo quattro giorni dalla profilassi e comunque si risolvono da soli in pochissimo tempo, al massimo usando un po' di cortisone. Negli Stati Uniti all'11 di giugno si erano registrati 1.226 casi su un totale di 300 milioni di dosi Pfizer e Moderna, quindi 4 episodi su 100 mila iniezioni, e nessuna conseguenza grave. Pensi invece quanti ricoveri e decessi sono state evitati».

Nonostante i vaccini, però, i contagi aumentano e comunque registriamo circa 50 morti al giorno. Professore c'è il rischio di una nuova ondata in autunno con la riapertura delle scuole? «Tutto dipenderà dall'evoluzione della campagna vaccinale. Arrivati alla soglia dell'80% della popolazione immunizzata, che sarà raggiunta verosimilmente alla fine di settembre, saremo un po' più tranquilli... Lasciamo stare i "no vax" ideologici, quelli non cambieranno mai idea, ma tutti gli altri vanno rintracciati e convinti. Chi invece ha paura dovrebbe almeno considerare che se continuiamo a occupare posti in rianimazione con persone non vaccinate, finiamo per creare un danno enorme a tutti gli altri».

Per esempio?
«A tutte le persone che hanno bisogno di rianimazione, per esempio ai pazienti con gravi insufficienze d'organo, tumori, traumi della strada e infezioni gravi, la meningite dei bambini per farle capire. Insomma, viviamo in una società nella quale le mie scelte decidono anche sulla vita degli altri. Stiamo bene solo se anche gli altri stanno bene. Chi per paura non si vaccina rischia il ricovero e rischia di sottrarre possibilità di cura ad altri». La paura spesso è irrazionale. «In realtà chi ha paura teme complicanze e in particolare la trombosi. Adesso sappiamo dal lavoro pubblicato sul British medical journal dai ricercatori di Oxford di cui abbiamo parlato prima che il vaccino addirittura protegge dalle trombosi».

Professore servirà la terza dose per tutti?
«Io preferirei chiamarla richiamo. Poi, io credo che dobbiamo guardare con attenzione a quello che succede in Israele».

Dove i richiami sono all'ordine del giorno.
«Dove, nonostante il fatto che il 78% della popolazione con più di 12 anni sia vaccinato, si registrano ancora un alto numero di infezioni, circa 700 casi al giorno per milione di abitanti. Questo conferma che la variante Delta è straordinariamente trasmissibile e che qualche ritorno dell'infezione è inevitabile. Per questo Israele ha deciso di vaccinare con la terza dose prima le persone fragili che hanno delle gravi patologie, quindi gli over 60 e da pochi giorni ha iniziato con gli over 50. Diversi studi dimostrano che con la terza dose c'è un rapidissimo incremento degli anticorpi. Ricordiamoci sempre che i non vaccinati hanno molte più probabilità di arrivare in ospedale e di morire rispetto a chi si vaccina».

Insomma partiamo subito con il richiamo anche da noi?
«No, non per adesso e non per tutti. In Italia la priorità resta quella di vaccinare tutti con la prima e la seconda dose. Poi penseremo al richiamo».

Visto quanto mi dice, oggi più di ieri è fondamentale insistere con le cure domiciliari. Con il suo studio lei è stato il primo a intuire le potenzialità dei farmaci antinfiammatori non steroidei nelle fasi precoci dell'infezione. Oggi cosa possiamo consigliare?
«Il concetto fondamentale resta quello di visitare il malato e curarlo sin dai primi sintomi, rivalutando il ruolo del medico di base. Oggi esistono altri studi che confermano quello che abbiamo pubblicato sulla rivista EClinicalMedicine (il magazine che fa capo a Lancet). Noi avevamo parlato di una sostanziale riduzione della necessità di ricorrere agli ospedali con il nostro approccio di terapia precoce. Lo stesso e nelle stesse proporzioni è stato visto in uno studio che arriva dall'India (pubblicato in forma di pre-print) dove si utilizza un anti-infiammatorio diverso da quello che abbiamo usato noi, l'indometacina: nessuno di quei malati ha avuto bisogno dell'ossigeno. Un altro studio, anche questo prospettico come quello degli indiani, ma pubblicato su Lancet, utilizza un preparato antiasma che contiene una piccola dose di cortisone, il Budesonide, che riduce del 90% la necessità di cure intensive. Bastano due inalazioni al giorno fino a quando i sintomi si risolvono».

Mi sembra di intuire che resti fondamentale la tempestività degli interventi.
«Tutti questi studi, i cui risultati sono molto simili, dimostrano che non è importante il farmaco che si utilizza, la cosa fondamentale è occuparsi degli ammalati il più rapidamente possibile e iniziare a curarli sin dai primi sintomi». 

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