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Intelligenza artificiale "guasta"? Ecco cosa potrebbe accadere: lo scenario distopico

Intelligenza artificiale

Francesco Specchia
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Tutto cominciò quel livido 21 febbraio 2024, il giorno in cui i neuroni di ChatGPT cominciarono ad andare in pappa. Fu, quella, l’avvisaglia dell’apocalisse. Qualcosa, nel nostro mondo in silicio, davvero non stava tornando. L’assistente virtuale, acceso su richieste banali, prese a mescolare lingue, nonsense e bestemmie in un esperanto impossibile. Gli schermi dei pc si spensero di botto, per riempirsi di cascate di algoritmi lussureggianti. Le risposte ai quesiti esalavano da tastiere confuse, si legavano al rito bizzarro di bonifici istantanei richiesti dalle App, partendo da una base d’asta di 200 dollari (che i computer, naturalmente, non potevano spendere), ed erano assolutamente sconclusionate. Scomparsa la regola di Asimov sui robot al servizio dell’uomo, adesso era come se l’anima esosa di Warren Buffett avesse misteriosamente contaminato gli hardware sino ad allora formalmente dediti al bene dell’umanità. Levavi gli occhi al cielo per la disperazione, ma il cielo era una cappa di piombo. La notte ingoiava tutti i rumori.

DAI BASTIONI DI ORIONE
Non funzionavano più i lampioni ai lati delle strade sempre più impercorribili, la corrente elettrica si attivava quando voleva, il luccichio lontano dei bastioni di Orione non bastava a sopperire alla tenebra dei televisori spenti. In tutto il pianeta, all’improvviso e contemporaneamente, ogni singolo utente di ogni singolo computer, si trovò precipitato in quel film di Stephen King, Brivido, o in quel racconto di Don De Lillo, Il silenzio, dove il blackout avvolge gli uffici, le case, i negozi, gli ospedali, tutte le vie di comunicazione; e i bancomat parlano e insultano i clienti; e i semafori ballano la rumba causando incidenti a catena e negli ospedali. E i macchinari, proprio nelle corsie delle cliniche mediche, si fermano, lasciando i chirurghi a lume di candela, con i bisturi in mano, a trascinare nell’abisso le speranze dei pazienti, e spesso i pazienti stessi.

 

 

 

Ecco. I trasporti erano quelli più colpiti, infilati nel groviglio di autostrade desertificate e senza luce. I treni sostavano, in coma, alle stazioni; e le torridi controllo spente costringevano le linee aree a soste forzate. I viaggi spaziali tanto cari a Elon Musk, senza i loro satelliti di riferimento, tornarono ad essere un respiro da fantascienza di serie B. Ecco. Fu quello il colpo fatale. Fu quello l’esatto momento in cui all’Intelligenza Artificiale, a cui stavamo affidando le nostre vite, prese un coccolone, peraltro senza che nessuno riuscisse a capirne il motivo. L’ictus della AI ebbe conseguenze devastanti, impreviste e benefiche al tempo stesso. Affidarci alle macchine che ora sceglievano di loro piena volontà il loro destino, aveva segnato inevitabilmente il nostro. «Non c’era nessun odore. Non c'era nessun movimento. Ogni passo che facevo produceva uno scricchiolio nella brina biancoazzurra. E ogni scricchiolio era seguito da un’eco sonora. La stagione della chiusura era compiuta.

La terra era chiusa a doppia mandata. Era inverno, adesso e per sempre», sfogliavo le pagine di Kurt Vonnegut e le sue profezie; mai avrei pensato di poterle vivere, mentre la realtà attorno a me sembrava regredita di almeno un secolo. Guardavo, fuori dalla finestra, la landa desolata della nuova civiltà. Uno scenario mozzafiato. Le automobili giacevano abbandonate, morte d’inedia per la mancanza di benzina mai più erogata dai distributori. Niente più trattori e niente più agricoltura intensiva; i campi arati da buoi, a blocchi di due, mentre sciami di braccianti tornavano ad usare le loro braccia per spargere il seme, sotto l’occhio aguzzo dei caporali. Le ciminiere delle fabbriche non sbuffavano più.

Gli orologi digitali s’irrigidivano, appesi alle insegne dei vecchi cinema in disuso. La gente, per lo più giovani, si muoveva al ralenty, in bicicletta o in monopattino, indossando le magliette di Greta Thunberg, Timmermans e Fratoianni, gli unici vincitori morali in questa tragedia iperecologica. Il web era diventato un privilegio aristocratico: della musica di Spotify, assieme alle serie di Netflix, restava il ricordo, il rumore di fondo della mia generazione. Eppoi gli smartphone trafitti dall’immobilità come le farfalle dallo spillone. E, con gli smartphone ecco silenziati tutti i mondi in essi contenuti. E gli archivi, i dati, gli indirizzi mail e i numeri di telefono, l’imprescindibile bagaglio professionale di noi giornalisti. Scomparsi. Erano tutti scomparsi. E, assieme a loro, era calato l’oblio anche per gli Isee, i codici bancari, i dati fiscali, le coordinate su cui l’anagrafe e lo Stato avevano codificato, negli ultimi decenni, le nostre stesse esistenze. Ogni cosa risultava piallata, ogni pensiero evaporato, ogni parola sprofondata in una strana dislessia. La follia shakespeariana di Chat GPT aveva cancellato una parte essenziale dei nostri dischi fissi, della nostra socialità. Fin qui l’esperienza improvvida e devastante.

Poi, però, arrivò pure la parte benefica. Che mi venne annunciata, con disperazione, da mio figlio Gregorio Indro, un dodicenne cyborg involontario -come tutti i coetanei- a causa del polso destro dalla postura innaturale, fuso assieme allo smartphone. Greg gridò, all’improvviso, dal piano superiore, come se gli avessero tagliato un braccio. «Papà non mi funziona il telefonino!». Sollevai il capo, incuriosito. «Papà, non posso più chattare: Instagram e Tik Tok sono scomparsi, sono scomparsi anche i consigli video su YouTube!». Una lama di luce quasi divina tagliava il buio della stanza. Gli dissi –mentendo- di non preoccuparsi, cercando di soffocare il sorriso. “... E non ho più accesso al FantaCalcio!». Il Fantacalcio.

 

 

 

IL RITORNO DEI NEURONI

Aquel punto esplosi, dentro, nella gioia infinita del padre che ritrova i neuroni del figliol prodigo. Abbracciai il pargolo, cresciutello, ne consolai le sinapsi affannate. «Non preoccuparti figliolo», gli dissi «prova ad toccare questi oggetti di carta pesanti come sogni di civiltà: sono scritti dentro, si chiamano libri. Un tempo, prima di Tik Tok ci nutrivamo i cervelli...». E approfittai di quell’attimo di debolezza che poteva non tornare più. Gli misi subito in mano Umano, poco umano di Mauro Crippa e Giuseppe Girgenti (Piemme), il manuale di resistenza alle macchine; e gli raccontai, scandendola bene, la trama di The social Dilemma, il documentario che narra di quanto l’intelligenza artificiale possa lessarti la mente. Poi è arrivato l’ictus. E nulla è stato più come prima...

 

 

 

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