In quest’emissione della rubrica non si discorre di cucina, bensì si ragiona su una declinazione del concetto di “edibile”: i distributori automatici di cibo e bevande. Le “macchinette” sono metafora ed epitome del nostro tempo: vizio, solitudine, il dogma della rapidità, colori, illusioni e frustrazioni (soldi mangiati e prodotti esauriti, per esempio). Ci sarebbe anche “Camera Cafè”, opera migliore di Luca e Paolo, ma l’umore blu-neon impone altri registri.
Per intendersi: partiamo dal collega che con volto tormentato, due volte al dì, si dirige verso il totem multi-selezione commiserandosi: «Vado ad avvelenarmi». Torna in un tripudio di caramelle gommose, barrette di cioccolato, financo tramezzini al tonno. Poi un tè e un ginseng, l’uno dopo l’altro. Dunque è un poco meno sano ma più felice. D’altronde le vending machines - salvo intoppi e truffe - non ti abbandonano mai. A tal proposito torno ancora in Giappone: quando ci metti piede per la prima volta e non capisci proprio nulla le macchinette sono l’unica certezza. Sono endemiche e offrono il necessario per la sopravvivenza, non solo vivande e vettovaglie. Permettono di eludere barriere linguistiche e culturali: strisci la carta e schiacci il disegno che corrisponde al tuo impulso. Et voilà, in Giappone ti senti un pizzico meno fuori dal mondo. Due cifre sul Sol Levante, terra elettiva dei distributori con tastierino: sono quasi 4 milioni, 1 ogni 23 abitanti (!) per un giro d’affari superiore ai 60 miliardi di dollari l’anno.
Ostriche, quando il mollusco veniva trattato come una patatina
Segue arcinota frase di Woody Allen: «Non mangio mai ostriche, il cibo mi piace morto, non malato né ferito...Ora, un focus sugli aspetti positivi delle macchinette: convenienza, accessibilità. Da un punto di vista imprenditoriale e lucrativo, sono un business scalabile con un basso investimento iniziale. Poi gli aspetti negativi: perfette alleate di uno stile di vita frenetico (c’è chi sostiene che l’aspetto sia positivo, ma la vita frenetica a cui non mi sottraggo sovente è una vita di merda). Dunque il potenziale obesogonico: ossia dispensano cibi insalubri, pieni zeppi di calorie, poveri di nutrienti e fieri alfieri dell’obesità (l’inferno in terra per i paranoici del cibo ultraprocessato).
Se vi punge vaghezza di sapere come si determina il prezzo di un singolo prodotto, ecco la formula, molto basilare: si raddoppia il costo della merce. I margini fluttuano tra il 50 e il 70%: pesano le commissioni per le location (10-20%), la manutenzione (5-10%), il trasporto.
Torniamo al fattore junk food. Un recente studio PMC (mecca della divulgazione accademica biomedica) ha evidenziato come la presenza di prodotti healthy nei distributori si traduca in un incremento delle vendite pari al 39%. Dovrebbe essere una buona notizia. A me pare una conferma della precarietà nociva del contemporaneo.