Uguaglianza in Sanità ‘sparita’:migranti salute +21,4 per cento

Dal VII Rapporto RBM-CENSIS emerge che i migranti della salute sono aumentati del 21,4 per cento (1,7 milioni di persone) raggiungendo quota 4,3 miliardi con un aumento del 10,2 per cento
di Maria Rita Montebellidomenica 5 agosto 2018
Uguaglianza in Sanità ‘sparita’:migranti salute +21,4 per cento
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Cartone al posto del gesso: soluzione ‘fai da te’ dell’Ospedale di Reggio Calabria per far fronte ad un approvvigionamento carente dei materiali necessari a garantire le cure ai cittadini. Una scelta ‘obbligata’ dalla mancanza di risorse e da una programmazione finalizzata esclusivamente a garantire la compatibilità finanziaria dei livelli assistenziali messi a disposizione della popolazione. Non c’è dunque da meravigliarsi se in molti, soprattutto, gli italiani che vivono nelle regioni del Centro Sud decidono di spostarsi presso i centri del Nord per sottoporsi a cure o interventi.  È il fenomeno della mobilità sanitaria che, come si legge nel VII Rapporto RBM – Censis, lo scorso anno è tornato a crescere: +21,4 per cento rispetto al 2015, coinvolgendo oltre 1,7 milioni di italiani – 950 mila malati e 825 mila accompagnatori - e raggiungendo quota 4,3 miliardi, con un aumento pari al 10,2 per cento rispetto all’annualità precedente, che si era attestata a quota 3,9 miliardi. Ma se il saldo totale dei flussi della migrazione sanitaria a livello nazionale è ovviamente pari a zero ci sono Regioni che ci ‘guadagnano’ e Regioni che ci ‘perdono’ e queste ultime sono la maggioranza: 13 Regioni su 20 hanno infatti un saldo negativo tra crediti e debiti (Campania, Calabria e Lazio in testa).         Con riferimento agli specifici flussi migratori, si evidenzia una migrazione prevalente da Sud a Nord di circa 258 mila persone (di cui 72 mila dalla sola Campania), 235 mila persone che si spostano dal Sud al Centro, 180 mila persone dal Centro al Nord ed infine una mobilità parallela tra Regioni della stessa macroarea o comunque confinanti che interessa 227 mila cittadini. I poli attrattivi sono rappresentati principalmente da Roma, Milano, Genova, Bologna, Padova, Firenze, Pisa e Siena: 1 migrante della salute su 4 infatti si reca in una di queste città. Per più della metà dei casi (56 per cento) la motivazione alla base della migrazione è la qualità delle cure; incidenza molto significativa anche quella delle liste di attesa (25 per cento) e della logistica (19 per cento). La migrazione sanitaria non si basa dunque su esigenze di mero comfort, ma è determinata da situazioni gravi e importanti in termini patologici. Motivo che ci dovrebbe indurre a valutare opportunamente qual è l’incidenza della mobilità sanitaria rispetto alla cosiddetta sanità negata. È importante sottolineare che il fenomeno attesta importanti carenze assistenziali proprio sulle patologie più importanti quelle per le quali, almeno teoricamente, la risposta del Servizio sanitario nazionale non solo dovrebbe essere più efficace ma anche omogenea su tutto il territorio del nostro Paese. E invece, ancora una vita, assistiamo ad un’Italia a due velocità dove a correre a scarto ridotto non è solo l’economia ma anche i diritti fondamentali. Le principali patologie che spingono alla migrazione sono di natura oncologica, per quasi la metà dei casi (43 per cento), cardiovascolare (26 per cento), gravi malattie croniche (24 per cento) e gravi patologie pediatriche (7 per cento). Quello della migrazione è un fenomeno che crea disagi, angosce e costi per molti insostenibili anche considerato che, a quelli delle cure, almeno in parte ibridate da percorsi privati (mediamente il 55 per cento per il paziente ed il 45 per cento per l’accompagnatore) prevalentemente per visite ed accertamenti, di assistenza infermieristica, di vitto e alloggio, bisogna aggiungere anche i costi indiretti per il lavoro perso che arrivano ad incidere fino a 2/3 del costo complessivo. Ancora una volta, quindi, ci troviamo a fare i conti con gli effetti della Riforma del Titolo V della Costituzione che ha introdotto, come più volte ricordato, il federalismo sanitario nel nostro Paese generando di fatto 21 Servizi sanitari regionali differenti. Gli effetti pratici nella vita di tutti i giorni per i cittadini sono evidenti e riguardano le infinite liste di attesa che nell’ultimo anno vanno dai 33,69 giorni di media nel Veneto (21,20 giorni in Valle d’Aosta) agli 82,54 giorni di media nel Lazio, passando per i 70,04 giorni di media della Campania; mentre il valore medio dei ticket va dai 67 euro medi del Veneto ai 33 euro della Sardegna, passando per i 44 euro medi per ticket della Campania; la spesa sanitaria di tasca propria (il cosiddetto Out of Pocket) – che, è bene ricordarlo, si aggiunge ai costi già sostenuti da tutti noi mediante la fiscalità generale per finanziare il Servizio sanitario nazionale e che, a loro volta, ammontano in media a 1.867 euro pro capite – va dagli oltre 650 euro pro capite del Veneto e della Liguria (con valori ben superiori ai 750 Euro per cittadino in Valle d’Aosta, che registra un valore di 877 euro a testa, e nelle Province Autonome di Trento e Bolzano) ai 324,56 euro della Campania; l’incidenza delle cure rinunciate o differite – che riguardano ormai oltre 12,2 milioni di italiani – va dal 15 per cento del Nord Est  al 39 per cento del Centro, passando per il 28 per cento  del Sud e Isole. “Di fronte ad una progressiva riduzione della capacità del Servizio sanitario nazionale di garantire livelli assistenziali omogenei perché non affidare ad un ‘secondo pilastro sanitario’ organizzato su base regionale il compito di garantire una perequazione assistenziale per i cittadini? Si tratterebbe di una grande opportunità per restituire dignità al territorio attraverso una leva in grado di liberare nuove risorse anche per quei cittadini che vivono in Regioni non in grado di garantire cure in linea con gli standard richiesti – sottolinea Marco Vecchietti, amministratore delegato e direttore generale di RBM Assicurazione Salute – È chiaro che un modello del genere richiederebbe un superamento dell’attuale impianto delle forme sanitarie integrative, prioritariamente incentrato sul rapporto di lavoro dipendente, e la contestuale promozione di fondi sanitari aperti che potrebbero peraltro essere impiegati anche come strumenti della pianificazione sanitaria. Peraltro, questa impostazione potrebbe integrare anche il modello delle forme sanitarie integrative contrattuali (da Ccnl o da Cia), andando ad operare in misura complementare proprio in quelle aree dove anche a causa di elevati livelli di disoccupazione o di particolari situazioni demografico e/o socio-sanitarie, le forme sanitarie integrative non sono riuscite finora ad affermarsi”. (PIERLUIGI MONTEBELLI)

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