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Gerard Depardieu contro tutti, l'autobiografia: dall'amicizia con Vladimir Putin alle grandi bevute

Andrea Tempestini
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Basta il suo corpo a farne un simbolo. Smisurato, eccessivo, sformato. La cifra di Gérard Depardieu è la dismisura, ancora prima che apra bocca, o che esprima scrivendo il suo pensiero. Basta il corpo: il ventre gonfio, lo stomaco deforme e tonante di chi si rimpinza e versa il vino in abbondanza. Il volto imperfetto, il naso torto che sa di botte e di strada. Eppure, sotto gli strati di ciccia e di gas intestinali, le gambe robuste e i glutei ancora torniti che ha esibito in Welcome to New York, il film di Abel Ferrara in cui Gérard (viene da dargli del tu, per quanto è simpatico) appare nudo con le sue forme prorompenti. Il corpo di Depardieu è un monumento al politicamente scorretto, e il Depardieu-pensiero è il meraviglioso corrolario, ben illustrato nell'autobiografia È andata così, ora in libreria per Bompiani. Nel testo, l'attore non risparmia nulla, dall'infazia poverissima e violenta alla gioventù irrequieta. «Sono sopravvissuto a tutte le violenze che la mia povera mamma si è inflitta con i suoi ferri da maglia, con i suoi decotti, con i suoi pasticci. Il terzo bambino che proprio non voleva ero io, Gérard. Sono sopravvissuto. Mi ha raccontato tutto, Lilette. “E pensare che per poco non ti ammazzavamo!” mi diceva sfregandomi la testa. Con amore, eh». È in questi brani che salta fuori la carica sovversiva di Depardieu, molto diversa dalla posa di chi intende épater le bourgeois. «A scuola non ci sono andato per un bel pezzo, perché mi hanno cacciato... I miei non ce la facevano a pagare», racconta. «Mi hanno sempre buttato fuori, professori e preti. Persone che comunque non erano delle merde, persone del tutto normali che sono venute a salutarmi tutte gentili quando Châteauroux mi ha concesso la cittadinanza onoraria dopo L'ultimo metrò di Truffaut, o Sotto il sole di Satana, o non so più cosa...». Depardieu è cresciuto in un mondo violento. Parlando della sua infanzia ricorda: «Quando gente con facce alla Lino Ventura, camionisti, giostrai, mi chiedono se mi va di farmi succhiare l'uccello, parlo di soldi, faccio il mio prezzo. Ho dieci anni, ma ne dimostro quindici». Si mette in mostra, Gérard. Racconta i suoi amori e i suoi dolori, il rapporto col figlio Guillaume, morto nel 2008 dopo un lungo tira e molla con alcol e droghe. Diventa un simbolo senza volerlo essere. Ed è proprio questo che lo rende un eroe del politicamente scorretto, alternativo a una società asfittica e cauterizzata. Gli attori si vantano di recitare per l'arte? E lui spiega di essere esoso: «È in occasione di Novecento che commetto la mia prima rapina sul lavoro. Vengo a sapere quanto sarà pagato De Niro, ma Bertolucci mi propone la metà. A Serge Rosseau, il mio agente dell'epoca, sembra normale: “De Niro ha già fatto una dozzina di film, è molto più conosciuto di te.” “Me ne frego, voglio quanto l'americano, centoventimila dollari o niente”». Li ottiene, quei soldi. E ammette: «Quello che la gente non capisce è che non ho mai avuto il sogno di fare l'attore. Il mio sogno è stato quello di sopravvivere. Ho fatto l'attore per uscire dall'analfabetismo. Avrei potuto fare altro, ci sono capitato per caso, non ho scelto niente. E siccome non ho niente, mi devo sbattere. Non per avere tutto, che non mi interessa. Ma la vita mi interessa, cazzo!». Ecco, la vita. Che esplode dalle pagine dell'autobiografia e da ogni scelta di Gérard. Mentre le femministe di mezzo mondo assaltano Dominique Strauss-Kahn e ne fanno l'emblema del maschio oppressore, Depardieu sceglie di interpretarlo nel film di Ferrara, quasi intagliato su di lui. Nell'autobiografia celebra le sue avventure amorose, ma lo fa con una grazia incomparabile: «Élisabeth, Karine, Carole... le ho amate tutte. Nessuna donna mi ha mai messo in trappola, nelle trappole ci sono andato da solo, come sempre». L'Occidente intero si genuflette nel culto della salute? Gérard sceglie la vita, il cibo buono anche se grasso. Delle sue prodezze da ubriaco abbiamo letto sui giornali, forse fin troppo e con troppe esagerazioni. Ma sentite con che poesia parla del suo vino: «Se ho deciso di produrre del vino, è perché i miei figli non dimentichino la vita, perché rimanga una traccia. (...) Il vino è un miracolo. E oltre a tutti i simboli – il sangue di Cristo, l'Ultima Cena, la condivisione – il vino è l'elisir di tutti i grandi poeti che amo: Rimbaud, Lautréamont, Poe...». E ancora, l'apice della scorrettezza: il coro bercia contro Vladimir Putin? E Depardieu lo difende. Di più: va a vivere in Russia. «Oggi do fastidio per cose che non capisco, ma mi fanno capire quanto sono diverso da tutti quelli che mi giudicano per quello che leggono sui giornali», scrive. «Amo la Russia, sono amico di Putin, mi sento tanto francese quanto cittadino del mondo, e non penso di fare male a nessuno concedendomi la libertà di andare a vivere dove voglio e di amare chi voglio. Esattamente come quando mi spacco il muso con la moto, da solo, quando sono ubriaco: sono fatti miei, non faccio male a nessuno. Quindi che mi si lasci vivere a modo mio, frequentare chi voglio io, come facevo a Châteauroux quando nessuno sapeva chi fossi». E aggiunge: «Se Putin e io ci siamo incontrati, se ci siamo riconosciuti subito, è perché entrambi avremmo potuto diventare delinquenti. Penso che in me gli sia subito piaciuto il mio lato hooligan, sia che pisci in un aereo, che prenda a testate un paparazzo o che mi tirino su da un marciapiede ubriaco fradicio. E io, facendolo parlare, ho capito che anche lui ne aveva fatta di strada, che come nel mio caso nessuno avrebbe scommesso un soldo su di lui quando aveva quindici anni». Poi, l'ennesima bacchettata alle femministe: «Hanno scritto che sono amico di un dittatore. Putin un dittatore? Non so niente di politica, di coglionate ne dico la mia parte, ma per me Kim Jong-un è un dittatore, non Putin. Avete visto la faccia delle Pussy Riot quando sono uscite di prigione? Sembravano arrivate da una sfilata di moda, truccate, le guance belle tonde, il rossetto sulle labbra... Datemi l'indirizzo di questa prigione, sono sempre alla ricerca di un buon centro benessere!». Certo, c'è chi accusa Depardieu di aver «tradito» la sua nazione. Ma lui è di una razza vagabonda, francese nell'intimo, nel sangue. «Non sono io che tradisco la Francia, sono i francesi che tradiscono se stessi. A poco a poco hanno perso il senso della libertà, il gusto dell'avventura, hanno perduto l'udito, l'olfatto», dice. «Sì, a sessantacinque anni non ho voglia di pagare l'87 per cento di tasse. Ma non è che non abbia fatto la mia parte: da quando lavoro, ho dato allo Stato francese centocinquanta milioni di euro. (...) Non mi sento affatto in debito con la Francia, amo questo Paese, gli ho dato molto, non me ne lamento, ma ora non rompetemi le palle!». Davanti a questo pensiero, smisurato come il ventre di Gérard, di fronte questa vita che esplode in un mondo di morti e moralisti, chapeau. di Francesco Borgonovo

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