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Giampaolo Pansa: Sergio Mattarella? Tenace, insistente, lungimirante: stupirà tutti, anche Renzi

Andrea Tempestini
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Ho conosciuto Sergio Mattarella in un momento cruciale per la Democrazia cristiana e per l'area di Ciriaco De Mita, la sua corrente. I demitiani erano la tribù bianca che poteva vantare una quantità di tipi umani che non tutti i clan della Balena avevano. De Mita svettava sull'intera parrocchia. E ti catturava come pochi sapevano fare. Mi diceva sempre: «Pansa, tu non capisci i miei ragionamenti. Ma se non mi comprendi, come puoi pretendere di intervistarmi?». Clemente Mastella, il suo addetto stampa, m'incoraggiava: «Ciriaco fa così perché ti stima». Riccardo Misasi, il capo della segreteria, amava De Mita e lo riteneva il nuovo Giulio Cesare della politica italiana. Quanto a Mattarella era tutta un'altra storia. Il mio ricordo ha una data precisa: l'inizio del febbraio 1989. Il giorno 17, a Roma, si sarebbe aperto il diciottesimo congresso nazionale della Dc e tutti davano per conclusa l'era di De Mita, durata sette anni. La fine veniva annunciata da una tempesta di voci. Ciriaco è cotto. È fritto. È finito. Deve sloggiare da piazza del Gesù. Lui e i suoi. Gli avellinesi e anche gli altri: i colonnelli, i capitani, i furieri. Che grandinate sulle tende demitiane! Roba da far saltare i nervi a un rinoceronte di marmo. Però i nervi non saltavano. Non a tutti, perlomeno. A Sergio Mattarella certamente no. Andai a trovarlo a Palazzo Chigi, dove ancora sedeva De Mita, nel suo ufficio di ministro per i rapporti con il Parlamento. In quel momento aveva 48 anni e un volto assai più giovane sotto i capelli già bianchi. Un signore pacato, tenace, senza ansie da potere né sbandamenti faziosi. Il politico sul quale De Mita aveva investito di più, ma che non si era annullato in Ciriaco. Un suo amico mi aveva detto. «Nel lavoro di partito, Sergio è tenacissimo e insistente, come la goccia che cade». Gli chiesi se gli piacesse l'immagine della goccia. Lui sorrise: «Non so dirle se sono così. Però Aldo Moro aveva già spiegato l'importanza dei piccoli passi. Elogiava il lavoro che sembra fatto di niente. Non dico che i piccoli passi, quelli che si vedono poco, siano i più importanti. Ma di certo lo sono quanto i grandi movimenti che suscitano clamore». Se rileggo gli appunti che presi nel nostro lungo colloquio, rimango ancora stupito dalla schiettezza di Mattarella nel descrivermi i partiti e la Casta politica di allora. Eravamo nell'Ottantanove e mancavano appena tre anni all'inizio del ciclone di Mani pulite. Ma i guai tremendi del partitismo, a cominciare da quello democristiano, erano ben chiari nell'esperienza di Sergio e lui non arretrò nel ricordarmeli. Esordì: «Bisogna cominciare dallo stato del tesseramento. È molto gonfiato e questo rende dubbia la legittimità della rappresentanza nel partito, il Chi rappresenta Chi e in virtù di che cosa. E c'è di peggio. I tanti padroni delle tessere in sede locale paralizzano la vita della Dc. I leader nazionali sono prigionieri di questi concessionari del marchio democristiano. Ne nasce un rapporto inverso a quello normale: non comandano i vertici del partito, bensì i gruppi periferici che sono i veri padroni dei vertici nazionali». «C'è poi un secondo male» continuò Mattarella. «Non è soltanto della Dc, anche se noi democristiani ce ne stiamo accorgendo prima di altri. Il reclutamento dei dirigenti in periferia avviene per linee sempre più interne. I partiti pescano i loro quadri soltanto fra i professionisti della politica già all'opera nelle correnti, nelle sub-correnti o nelle istituzioni. Questo rende i partiti asfittici e sempre più distanti dal loro retroterra sociale. Infine i quadri selezionati in questo modo risultano mediocri». Conclusione? Sergio Mattarella, seguitando a parlare senza enfasi, si dimostrò profetico: «Anche la Dc si trova in questa trappola molto rischiosa. Dobbiamo riuscire a rompere il sistema che le ho descritto, inserendo nei partiti energie nuove, raccolte dentro la società civile. Oppure i partiti moriranno. Non abbia il timore di attribuirmi questa previsione nera». Proposi a Mattarella di spiegarmi meglio quello che intendeva. La Goccia che cade non esitò: «In pochissimi anni i partiti italiani diventeranno dei corpi sempre più separati dalla società. E sempre meno qualificati. Nella periferia della Democrazia cristiana sta già accadendo. Il virus è molto esteso. E rischia di intaccare in modo irreparabile i piani alti del partito. La nostra area avverte sino in fondo questo pericolo. E De Mita sì è impegnato molto per renderlo evidente e combatterlo». «Il nodo del congresso che sta per aprirsi sta proprio qui: è la continuità rispetto a questo impegno. Se invece il nuovo assetto della Dc risulterà soltanto il frutto di un equilibrio fra le correnti, ci sarà meno sensibilità per questi problemi. E si farà prepotente la tentazione di ritornare al partito malato che nel 1981 sembrava in coma irreversibile e che De Mita ereditò l'anno successivo». Domandai alla Goccia che cade degli errori compiuti da De Mita nell'incarico di segretario. Lui non si sottrasse alla domanda: «Forse l'errore primario fu il tentativo, riuscito soltanto in parte, di governare la Dc nelle grandi città con i commissari, nominati dalla segreteria politica. In realtà erano dei coordinatori con funzioni di stimoli per il futuro. L'intuizione era giusta. Poi l'affanno quotidiano ha un po' impacciato le soluzioni. È il vizio illuministico dei gesti forti. L'esperienza ci ha insegnato che è meglio la semina lenta, il lavoro che sembra fatto di niente, per usare l'immagine di Moro». A quel punto Mattarella mi offrì un'altra previsione: «In tutto l'Occidente è in corso un processo che spinge i veri centri di decisione a trasferirsi fuori dalla politica. Esiste davvero il pericolo che i partiti diventino una sovrastruttura che galleggia su altri centri di potere né palesi né responsabili. La politica, invece, deve essere un punto alto di mediazione nell'interesse generale. Se la politica non è in grado di essere questo, le istituzioni muoiono. E prevale chi ha più forza economica o più forza di pressione, che è poi la stessa cosa». Così parlava Sergio Mattarella nell'Ottantanove. Dimostrava di sapere con certezza che un'epoca stava finendo. E talvolta attraverso eccessi più grotteschi che tragici. Ne incontrai un campione mentre stavo uscendo da Palazzo Chigi. Era l'ombra imponente del socialista Gianni De Michelis, ancora per poco vicepresidente del Consiglio nel governo De Mita. Mi regalò un salutone cordiale, poi cominciò a sparare a raffica contro Ciriaco, Bettino Craxi, i sottocapi del Psi e la loro debolezza nei confronti del leader del Garofano. Ce l'aveva soprattutto con Giuliano Amato: «Voi di Repubblica non capite un cazzo. Siete bambini ignoranti e pompate tanto Giuliano. È uno di quelli che dicono sempre di sì a Bettino. Nel vertice del Psi c'è uno solo ad avere il temperamento giusto per tenere testa a Craxi. E sai chi è?». Gli risposi: «Scommetto che sei tu, Gianni». E quel meraviglioso peso massimo, sempre pieno di femmine audaci e chiamato Avanzo di balera per la sua passione di frequentare i night, scuotendo vezzoso la chioma strillò con un sogghigno: «Come hai fatto a indovinarlo?». Qualche settimana dopo, De Mita perse la segreteria della Dc e in maggio si dimise da capo del governo. Rimasero vive, ancorché nascoste, le gocce che cadono senza mai fermarsi. Ventisei anni dopo una di queste entra al Quirinale. di Giampaolo Pansa  

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